Alcides, l’ultimo del Maracana’

Disclaimer: il pezzo che leggerete è stato scritto da me l’11 giugno scorso, immaginando un’intervista che avrei potuto fare (ma non ho fatto) al grande Alcides Ghiggia. Il quale se ne è andato lo scorso 16 luglio, a 89 anni, dopo una vita meravigliosa. Interpretatelo, se volete, come un omaggio postumo.
Spesso l’uomo impiega del tempo (tanto, troppo) nel trovare la sua casa.
Per casa non intendo il luogo natio, il cosiddetto hogar, ma quel posto dove si cresce, dove ci si completa.
Per trovare la propria casa spesso l’essere umano viaggia e si sposta di continuo, alla ricerca di un qualcosa di nuovo e “sicuro”. Nella ricerca della casa capita talvolta di imbattersi in personaggi leggendari e affascinanti, che stimolano in te un desiderio di scoperta, una curiositas, pari a quella del viaggio.
Per me, Alcides Edgardo Ghiggia è uno di quei personaggi.
Nella mia finora breve e minima carriera di giornalista ho avuto la fortuna e la capacità di intervistare ed incontrare figure rilevanti dello sport -e non solo sport- italiano ed internazionale, occasioni più o meno emozionanti in cui ho potuto raccontare lo sport e le loro carriere nel modo che ritengo più attraente: biograficamente. Penso che “l’intervista biografica”, all’interno del racconto sportivo, sia un metodo che consente a chi racconta e, soprattutto, a chi legge di capire e identificarsi davvero con l’intervistato, con la sua carriera e con i momenti cui, da appassionati sportivi, si è assistito.
Questa premessa mi è utile per introdurre  l’intervista che tanto avrei voluto fare e che, probabilmente, non realizzerò mai.
Prima di iniziare è doveroso dire che Alcides Edgardo Ghiggia nasce il 22 dicembre di 89 anni fa a Montevideo, capitale di un paese che, ai tempi, andava affermandosi come uno dei più industrializzati e democratici della sua regione: prossimo a festeggiare il Centenario dell’indipendenza, l’Uruguay del 1926 stava vivendo gli influssi benefici del Battlismo dal punto di vista economico e industriale, era un paese completamente laico e, anche tramite il calcio, riusciva a porsi sul mappamondo attirando l’attenzione dei paesi europei (ad esempio il Regno Unito, col quale vi erano frequenti relazioni commerciali) e nordamericani.
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La IASA di Alcides Ghiggia
La carriera di Alcides Ghiggia nasce come ala destra, ruolo in cui poteva sfruttare al meglio le sue doti fisiche e il suo gioco sviluppato por las calles (parliamo di un giocatore che aveva la fisionomia di un Messi), ma, a differenza di quelli che saranno i suoi compagni del ’50, non nasce calcisticamente nel Nacional o nel Peñarol, ma nella IASA, Institucion Atletica Sud America, una delle tante squadre dei quartieri “periferici” di Montevideo ma una delle poche che oggi non gioca nella capitale, ma nella vicina San Jose. Dalla IASA va al Progreso, dove esordisce in Primera e comincia a mettersi in luce. In Uruguay se ti metti in mostra la chiamata di un “grande” non tarda mai ad arrivare: infatti nel 1948 firma con il Peñarol, dove farà conoscenza con una figura ricorrente della sua carriera e vita: Juan Alberto“Pepe” Schiaffino.
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Alcides y el Pepe
Già, Schiaffino. Come ha influito nella sua carriera, señor?
Pepees simplemente un fenomeno. Quando arrivai al Peñarol lui era già un esempio per tutti, e si vedeva che era qualcosa di diverso dagli altri. Oggi il mondo elogia l’inventiva di un Pirlo o di un Iniesta, ma loro non sarebbero mai esistiti, in questi termini, senza Schiaffino. È incredibile pensare come la mia carriera, i miei successi ed i miei destini si incrocino così tanto con quelli del Pepe.
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Ghiggia Manya
Il suo ‘recorrido’ nel Peñarol è stato segnato dalla “maquina del ’49”.
Senza quella squadra fantastica probabilmente non sarei mai andato a giocare il Mondiale l’anno dopo. Una squadra capace di vincere e segnare come quella poteva dire la sua anche a livello continentale, visto poi il risultato che abbiamo fatto con la Celeste l’anno dopo.
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El Negro Jefe
In quel Peñarol c’era, oltre a Schiaffino, Obdulio Varela.
Se Schiaffino è Il Regista, Obdulio è Il Capitano. Lo odiavi, lo odiava Pepe quando litigavano come cane e gatto, quando Varela disse che fu Schiaffino a dire “se ce ne fanno 3 va bene” prima della finale col Brasile, dentro di noi sapevamo benissimo che non erano le parole di Juan Alberto. Uno può pensare “que pelotudo” uno che rischia di mettere zizzania nello spogliatoio. Ma tutti noi sapevamo bene che era un modo per motivarci. C’erano 200 mila persone. Tranne 30-40, erano tutti brasiliani. Erano tutti che si aspettavano una vittoria dei padroni di casa.
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Los de afuera son de palo
Come si affronta una partita così?
Eravamo concentrati, tranquilli ma allo stesso tempo vogliosi. Sapevamo che il Brasile tende ad attaccarti da subito, infatti giocammo per finire 0-0 il primo tempo. Loro erano contratti, troppo contratti; alla fine giocando come sapevamo non fu impossibile riuscire ad arrivare pari all’intervallo.
Dopo l’intervallo però Friaça batté Maspoli. Per tutti ormai sembrava finita. Ma non per noi.
Qui ritorna, ancora una volta, il suo legame con Schiaffino.
All’intervallo avevamo pensato ai possibili modi per scardinare la difesa brasiliana. Pepe non giocò un gran primo tempo, ma sapevo che si sarebbe fatto trovare pronto. Al 24° me ne andai sulla destra e crossai indietro. Arrivò proprio Pepe, che tirò forte e angolato. Gol!
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L’inizio della fine
1-1, il risultato però andava comunque bene al Brasile.
Sì, ma non si sarebbero mai accontentati di pareggiare. E allo stesso tempo vedemmo che vincere era davvero possibile. Prendemmo coraggio, e dieci minuti dopo arrivò il mio gol.
Il gol del secolo.
Andavo in contropiede sulla destra, la stessa posizione da dove crossai per il gol del pareggio. Ero tanto veloce che Bigode non riuscì a fermarmi. Allo stesso tempo Juvenal era in ritardo con l’aiuto. Entrai in area e calciai forte rasoterra sul primo palo. Barbosa si tuffò quando la palla era ormai già dentro.
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Campeones
Cosa ricorda del post partita?
Ero felice perché avevamo vinto il Mondiale, ovvio. Ci abbracciammo tutti, increduli ed entusiasti. Avevo pure segnato il gol decisivo, cosa potevo chiedere di più? Ma tutto attorno a noi era surreale. La gente piangeva, si disperava, dopo scoprimmo anche che alcuni si uccisero. Persino la premiazione avvenne in fretta e furia, e fummo costretti a “scappare” in spogliatoio, in albergo e poi a casa. Proprio dopo la partita mi colpirono alla gamba e mi infortunai. Ma non porto rancore: negli anni successivi, ogni volta che sono tornato in Brasile, sono sempre stato accolto abbastanza bene.
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Ghiggia a Montevideo durante i festeggiamenti
Che effetto le fa l’essere riconosciuto per strada ancora oggi, 65 anni dopo?
Incontro tanta gente della mia età, tanti veterani insieme ai loro nipoti, che magari vestono la maglia della Celeste, il 9 di Suarez o il 7 di Cavani. Mi chiedono una foto con loro, una foto con i nipoti, gli spiegano loro chi sono. Lo sguardo dei bambini è incredibile: tutti in Uruguay conoscono il mio gol a memoria, alcuni mi chiamano “leggenda”. Dopo tutti questi anni, è un qualcosa che mi inorgoglisce e mi commuove. Si ricordano ancora di me!
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Ghiggia recentemente
Si ricordarono di Alcides Ghiggia anche quando, terminato il ciclo con il Peñarol, seguì l’amico Pepe Schiaffino in Italia. Nel nostro Paese Ghiggia gioca 8 anni con la Roma, della quale fu anche capitano e, insieme proprio alPepe, conquistò la Coppa delle Fiere 60-61, dopo la quale si trasferì al Milan, dove contribuì alla conquista dell’ottavo scudetto, insieme ad un giovane Gianni Rivera.
Si ricordarono di Alcides Ghiggia anche al Peñarol, che allenerà per un breve periodo nel 1980 (dopo essere tornato a “casa” e aver disputato l’ultima stagione della carriera con il Danubio).
Si ricordarono di Alcides Ghiggia anche i brasiliani, quando nel 2009 lo invitarono a poggiare la sua impronta nellaWalk of Fame del Maracanà. Accanto a quelle di Pelé, Beckenbauer ed Eusebio. Il nostro si commosse: mai si sarebbe aspettato un tale riconoscimento da parte di chi ha pianto un suo gol.
Si ricordarono di Alcides Ghiggia quando, nel 2012, un camion travolse la sua auto e lo portò ad un passo dalla morte.
Ghiggia si salvò “per miracolo”, o più semplicemente perché non poteva morire senza aver gritado il suo gol più famoso, il suo gol più celebre, il gol que nunca se gritò.
 
Fino al 21 novembre del 2013. Prima del playoff di ritorno tra Uruguay e Giordania, valido per la qualificazione a Brasile 2014, 65 mila persone gritaron il gol di Alcides Ghiggia.
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Se grito’
Quel 21 novembre tra i 65 mila del Centenario c’ero anche io. Anch’io ho gritado el gol que nunca se gritò.
Non ho intervistato Ghiggia, al massimo ci ho scambiato due parole al telefono. Probabilmente non lo intervisterò mai.
Sembrerà retorica, ma il gol di Ghiggia è davvero il simbolo di un paese. È un qualcosa che trascende le generazioni, che attraversa il mondo e segna la cultura.
È stato d’ispirazione per canzoni, libri, film.
È capace di far venire la pelle d’oca a più di tre milioni di anime ad ogni singola visione. Ci riesce anche con me.

Ogni singolo giocatore che veste la Celeste sueña con quel gol. Sogna di ripetere un gol irripetibile, di riportare sul tetto del mondo un paese che si appresta a difendere la sua quindicesima Copa America (record continentale, più dell’Argentina, più del Brasile).

A farlo a grito de gol.

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Gracias por tanto