History is what makes us.

Assistere alla storia è sempre un qualcosa di particolare.

Sin da quando David Cameron mantenne la promessa di un referendum per l’uscita dall’UE in caso di vittoria alle elezioni 2015 (promessa fatta esclusivamente per unificare temporaneamente un partito spaccato: prendi nota, Italia) e stabilì la data del 23 giugno, ebbi una strana sensazione.

Cameron, dopo aver (giustamente) rispettato una (folle) promessa elettorale, andò a Bruxelles a negoziare ‘regole d’ingaggio’ per la permanenza UK in UE ancor più convenienti delle regole che, fino a ieri (o comunque fino ad effettiva Brexit), regolavano detta permanenza.

Uno status privilegiato: basta conoscere un minimo la storia e la struttura dell’Unione Europea per capire come il Regno Unito abbia trattato l’UE come il gruppo di amici con cui fare bisboccia quando si vuole ma dal quale dileguarsi al momento di pagare il conto del bar.

La promessa di referendum, unita ad un’opposizione laburista quantomeno flebile, consegnò poco più di 12 mesi fa ai Conservatori una maggioranza comoda, confortevole, utile per governare il paese senza particolari difficoltà fino al 2020.

La scommessa di Cameron aveva pagato. Ma quando scommetti una volta, è difficile smettere.

Motivo per cui Dodgy Dave decise di giocare su un altro tavolo, negoziando appunto delle nuove regole d’ingaggio, ovviamente (perché a Bruxelles non sono idioti) condizionate al voto pro-Remain.

A quel punto Cameron, il leader naturale e legittimato di un partito Conservatore ed Euroscettico (un controsenso) diventa il più accanito sostenitore del Remain. Consapevole che al Remain, a quel punto, si legava il suo destino politico.

Personalmente mi bastò, un paio di mesi fa, assistere ai primi discorsi di “apertura della campagna elettorale” per capire che il Remain non avrebbe avuto una chance.

Questo perché Cameron ha personalizzato su di se la campagna elettorale, approfittando di un partito laburista diviso internamente sulla leadership di Corbyn (e, in seguito, dall’agrodolce risultato delle amministrative di inizio maggio), lasciando campo fertile ai suoi oppositori naturali (l’UKIP di Farage) e meno naturali (Boris Johnson ed i Conservatori pro-Leave).

Cameron ha condotto una campagna elettorale disastrosa perché non poteva non condurla in tale maniera essendo l’intero referendum il frutto di due scommesse irresponsabili.

Ed è anche per questo motivo che i punti più bassi di questa brutta campagna elettorale (su tutti il brutale omicidio di Jo Cox) non hanno modificato, nonostante i fiumi d’inchiostro spesi dai tanti analisti da salotto che han firmato fior di editoriali per convincerci del contrario, le intenzioni di voto delle persone.

La maggioranza dei britannici ha votato per il Leave perché la maggioranza dei britannici non ha idea di che cosa sia l’Unione Europea: Farage, Johnson, i tanti quotidiani pro-Brexit hanno avuto vita facilissima nel convincere quelle fasce della popolazione verso cui i miei coetanei oggi si scagliano perché l’Unione Europea non è stata capace di farsi capire.

Ma attenzione: non possiamo soltanto dare la colpa a Bruxelles, incapace di “presentarsi”.

Le “colpe” bisogna darle, in maniera responsabile, anche a chi informa ed educa la gente.

È difficile, persino per un pro-UE, definire e spiegare bene a chi non capisce cosa sia l’Unione Europea.

La difficoltà nel capire un argomento tanto complesso poi può anche portare ad ore ed ore di analisi giornalistiche vacue e futili dove ci si scanna per opinion poll dal valore pari a zero, sondaggi per fasce d’età prese come verità assoluta, punti del dibattito televisivo (italiano, e qui ci tengo a precisare. Ho passato 6 ore sintonizzato su Sky News tra ieri sera e stanotte, risultati e commenti analitici secchi, nessuno che litigava. Del dibattito italiano mi rimarrà in mente Brunetta che litiga con Vespa e Monti che litiga con Tremonti) che ti invogliano a spegnere la televisione.

E poi ci stupiamo che la gente non capisce? Ci incazziamo con chi è “vecchio e poco istruito” perché decide per noi a maggioranza?

Rispetto chi lo fa, ma non sono d’accordo.

Incazziamoci se sappiamo di aver dato del nostro meglio, informando e confrontandoci.

È snob e anche superficiale ridurre il risultato di un voto ad una differenza di classe -tutta da dimostrare, tra l’altro: il voto è segreto ed i flussi di voto sono una cosa che ha valore da dimostrare- e può essere finanche offensivo.

Quando una parte vince sull’altra, specie su un referendum da “Yes” o “No”, è perché ha saputo fare valere le sue ragioni in maniera più efficace, che ci piaccia o no.

Stamattina Farage è stato facilmente e teneramente (nel senso che era teneramente imbarazzante osservarlo inciampare sulla questione) sbugiardato sui £350milioni “risparmiati” (virgolette necessarie) grazie all’uscita dall’UE da destinare al NHS (il servizio sanitario nazionale). Un baluardo della campagna Leave che, a urne chiuse, si è rivelato nonsense agli occhi di tutti.

A urne chiuse.

Bravi tutti.

Chiudo su una riflessione su Londra.

Oggi c’é stato chi mi ha chiesto “che aria tirava”.

Appena sveglio, alle 8, e appena letto su twitter delle dimissioni di Cameron mi sono messo la prima (brutta) camicia che ho trovato in stanza e sono corso a prendere la metro alla volta dell’area di Westminster.

Davanti a Downing Street ho visto gente di tutti i tipi: sostenitori del Leave, del Remain, turisti, curiosi, cittadini europei interessati. Pittori improbabili, gente avvolta da bandiere.

Tutti avevano in comune, oltre al desiderio di volere assistere alla storia, uno straordinario, incredibile e per certi versi inquietante senso di tranquillità. Interiore ed esteriore.

Fermo la mia caratterizzazione per non scadere in un’eccessiva retorica, ma a differenza di alcuni miei amici e coetanei rabbuiati e impauriti dal futuro, io continuo ad essere tranquillo e ad avere fiducia in Londra.

Continuo ad averla quando passo ore delle mie giornate a fare job seeking, perché Londra mi ha accolto e, nonostante dovrò lasciarla (temporaneamente?) martedì sera, so che mi accoglierà sempre.

Perché è la città dove a tutti vengono date chances (sì, plurale), e dove tutti possono dimostrare di valere (e di valerla).

E questo non dipende e non sarà modificato da nessun Leave.

Un (av)Ventura di ottimismo smodato

“Per la Nazionale azzurra che verrà Carlo Tavecchio ha scelto non un nome ad effetto ma un maestro di pallone, che sa valorizzare i giovani. Una decisione in controtendenza se si considerano gli ultimi allenatori: Sacchi, Trapattoni, Lippi e lo stesso Conte.”

Prendo l’incipit del pezzo del Fatto Quotidiano per riassumere, in maniera sintetica, ciò che si dice di Giampiero Ventura, futuro CT della Nazionale Italiana, l’uomo cui saranno affidate le speranze di qualificazione a Russia 2018 ed evitare un’esclusione, la prima in 60 anni (da Svezia 1958), qualcosa che rappresenterebbe l’anno zero del calcio italiano (che già viene da due eliminazioni ai gironi in Sudafrica e Brasile).

Ventura, che nelle ultime 5 stagioni è stato l’allenatore del rilancio del Torino a livelli medio-alti, è considerabile come il classico “mister di provincia”: gavetta lunghissima (ha allenato ovunque, dall’Interregionale alla A), esoneri e subentri, palmares fatto esclusivamente da promozioni, ridottissima esperienza internazionale.

Non nascondo di essere assolutamente contrario alla scelta di Ventura come CT, nonostante questa sia stata agevolata da una concorrenza quantomeno flebile (Montella sarebbe stato, specie alla luce di questa stagione, ancor più inspiegabile). Ma voglio cercare di dimostrare la mia contrarietà in maniera oggettiva, qualcosa di raro nel paese dei “60 milioni di CT”. Non perché credo di essere competente (anzi), ma perché mi piace una dimensione in cui gli avvenimenti sportivi si analizzano in maniera asettica, lasciando le pomposità retoriche a ciò che è extra-cronaca.

Carlo Tavecchio, presidente FIGC, ha definito Ventura un Maestro di Calcio.

Nel calcio la definizione Maestro è utilizzata spesso per un futuro ‘collega’ di Ventura: il quasi coetaneo (è nato 10 mesi prima) Oscar Washington Tabarez, che il 29 marzo scorso è diventato il CT più longevo della storia del calcio mondiale.

Tabarez è chiamato Maestro anche (e soprattutto) per la sua precedente esperienza di insegnante di scuola, affiancata all’attività di allenatore nei primissimi anni della sua carriera.

In Ventura si possono riscontrare alcune affinità con l’ex allenatore di Cagliari, Milan e Boca Juniors: entrambi nascono come calciatori (Tabarez era un terzino, Ventura un centrocampista), entrambi abbandonano la carriera agonistica dopo risultati modesti e entrambi iniziano ad allenare nello stesso anno: il 1980.

Lì i percorsi differiscono: nel suo primo decennio da allenatore Tabarez può vantare addirittura una Copa Libertadores (Peñarol 1987, l’ultima conquistata da un club uruguayo), un’esperienza all’estero (Deportivo Cali) e l’aver allenato ad un Mondiale (Italia 1990); Ventura, invece, fa più fatica ad emergere.

Dopo 5 anni divisi fra i dilettanti liguri, la prima ‘occasione’ arriva prima con lo Spezia, sulla soglia dei 40 anni, dove dura 12 partite (con una sola vittoria), e poi con la Centese, dove disputa un biennio in C1 culminato con una retrocessione.

Il suo debutto in B avviene a 46 anni, quando viene chiamato da Maurizio Zamparini sulla panchina del Venezia. Come spesso accade con Mr Z, il primo anno di B del nostro non è intero, in quanto si alterna con Luigi Maifredi e Gabriele Geretto ad un anonimo 9° posto, arricchito dagli 11 gol di un giovanissimo Christian Vieri.

Venezia non è un’esperienza fortunata, ma è il trampolino di lancio.

Seguono, infatti, una doppia promozione, in due anni, dalla C1 alla A col Lecce e un’altra promozione in A col Cagliari, col quale disputa il suo primo campionato in massima serie a 50 anni, nel 1998-1999. I sardi finirono tredicesimi, e Ventura dovrà aspettare il 2010 per disputare un’altra stagione completa in serie A, con quel Bari ereditato da Antonio Conte di cui si è tanto discusso negli ultimi giorni.

In mezzo, tanti subentri (Udinese, Messina, Verona), tanta serie B (Sampdoria, Cagliari e Pisa), e la promozione in B mancata col Napoli nel primo anno della gestione De Laurentiis.

A Bari Ventura registra un onorevole 10° posto ed una amara retrocessione l’anno dopo, preludio al quinquennio granata in cui raggiungerà un 7° posto, il suo career best in A, valido per l’unica qualificazione alle Coppe Europee della sua carriera (porterà il Torino fino agli ottavi di finale, vincendo 8 partite sulle 14 giocate in Europa) grazie anche alla mancata licenza Uefa al Parma, preludio al fallimento ducale.

Le 14 partite di quell’Europa League 2014-15 rappresentano l’unica esperienza internazionale del nuovo CT azzurro, un campione poco identificativo.

Tavecchio ha definito Ventura come uno che ha insegnato a tanti allenatori le sue regole innovative (affermazione tirata nel mezzo, difficilmente verificabile nei fatti reali) e come uno che ha lanciato un sacco di giocatori da nazionale.

Andiamo a vedere chi sono i giocatori “lanciati” da Ventura.

Possiamo considerare come primo esempio, pur forzato, quello di Vieri, avuto ad intermittenza nell’anno di Venezia; anche se è decisamente una forzatura definire Ventura come l’allenatore che ha lanciato Vieri nel calcio italiano.

Considerando le due esperienze più felici di Cagliari e Lecce, l’unico giocatore avuto da Ventura che ha poi avuto un’esperienza in Nazionale è stato Bernardo Corradi. Che, nell’anno della promozione in A, vide il campo per ben due volte.

Nessuna traccia di giocatori da Nazionale A nemmeno nella rosa avuta da Ventura alla Samp, quando invece all’Udinese ebbe sì due futuri nazionali come De Sanctis e Iaquinta, che però debuttarono in azzurro anni dopo essere stati alle dipendenze del mister ligure.

Il primo giocatore ad aver debuttato in Nazionale entro 12 mesi dall’aver avuto Ventura come allenatore è Mauro Esposito, in una stagione dove però Ventura fu esonerato alla sedicesima giornata.

A Napoli Ventura allenò un giovane Ignazio Abate, che però debutterà in Nazionale sei anni dopo.

Nulla da segnalare a Verona, mentre a Pisa nasce la liason con Alessio Cerci, che Ventura ha indicato come uno dei suoi 11 “potenziali azzurri” in un’intervista fatta a marzo con Sky. Cerci debutterà si in Nazionale grazie a Ventura, ma a 26 anni.

Passando al Bari, sappiamo tutto della coppia Bonucci-Ranocchia: entrambi esordirono in nazionale grazie alla bella stagione giocata in Puglia alle dipendenze di Ventura, prima di passare rispettivamente a Juventus e Inter.

Venendo poi al Torino, i nomi ci sono stati ripetuti spesso di recente: Ogbonna, Immobile, Darmian fino ai più recenti Baselli, Benassi e Zappacosta.

Escludendo Bonucci e Ranocchia, che sono stati allenati da Ventura per una sola stagione, sommando le presenze in Nazionale di Esposito, Cerci, Ogbonna, Immobile, Darmian, Baselli, Benassi e Zappacosta si arriva a 54 partite. Meno delle 57 disputate, ad oggi, dal solo Bonucci. Ben lontane dal rappresentare un “solido apporto storico alla Nazionale Italiana”.

Ciò che ho letto e sentito poco in giro è il fatto che Ventura, negli anni, abbia costruito le sue fortune di provincia nell’essere un allenatore di campo, dedito al lavoro quotidiano e costante nel costruire le squadre, plasmare uno stile di gioco (prevalentemente offensivo) e sviluppare la crescita dei giovani.

Qualcosa che, come abbiamo imparato dall’esperienza di Antonio Conte e dalle sue continue frizioni con gli altri allenatori di Serie A, è lontanissimo dal lavoro e dal modus operandi di un allenatore della Nazionale.

Non ho dubbi nel dire che Ventura, nelle sessioni di lavoro che svolgerà a Coverciano nei prossimi due anni, farà un ottimo lavoro e sarà in grado di dare un imprinting ai giocatori da lui selezionati.

Ho molti dubbi nelle capacità di Ventura come “lavoratore a distanza” e come selezionatore nel preparare partite particolari -considerando il girone di qualificazione che ci aspetta queste “partite” saranno numerosissime- dove non si può sbagliare.

La scelta di un CT come Ventura ha pochissimo senso nel biennio mondiale, dove non puoi permetterti di creare un progetto da zero, ancor di più quando hai un girone che quasi sicuramente ti costringerà a giocarti la qualificazione ad un playoff andata/ritorno.

Avrebbe avuto molto più senso puntare su una tipologia di allenatore stile Ventura due anni fa: qualificarsi ad un Europeo a 24 squadre è molto più facile ed in ogni caso andremo in Francia consapevoli che un quarto di finale raggiunto sarebbe un risultato onorevole.

L’Italia ha perso due anni con Conte che nel breve periodo ha lavorato molto bene, ma ha costruito zero sul medio/lungo e che porterà una sua squadra in Francia, di pretoriani e di scelte fatte per convinzioni tecnico/tattiche.

Ventura sarà un CT che costerà poco, molto meno di quanto sarebbe costato un selezionatore più blasonato (perché non si considera mai l’idea di un allenatore straniero?) e più di sicuro rendimento e che in ogni caso difficilmente sarà l’allenatore della Nazionale dopo il 2018 (quando arriveremo al decimo CT in 21 anni), vuoi per età (avrà 70 anni e le motivazioni saranno tutte da verificare) e vuoi per risultati che potrebbero non essere raggiunti (motivo per cui questa scelta potrebbe anche essere un ‘alibi’ perfetto).

Una scelta coraggiosa, anche alla luce del fatto che Tavecchio potrebbe non festeggiare il prossimo Natale da presidente FIGC, sarebbe stata quella di un allenatore poco sexy (abbiamo spesso assistito, nell’ultima stagione, a ripetuti peana celebrativi, quasi anticipati, sul #TorinodegliItalianidiVentura), magari straniero, con il quale promuovere un progetto di 6 anni che possa vederci realmente competitivi a Qatar 2022, accettando il rischio di non qualificarsi in Russia.

Invece si temporeggia, si fa una scelta di retoricadi manifesto (se Ranieri non avesse stupito il mondo col Leicester, Ventura sarebbe stata una buona idea per i media?) dimostrando come al calcio italiano non importa nulla il pensare sul medio/lungo periodo.

Tanto, poi, si può sempre ricorrere al #TroppiStranieri come giustificazione e panacea di tutti i mali.