Karlovy Vary International Film Festival – #coseceche

(nella foto, il caffé della giuria Ecumenica con Ken Loach e Paul Laverty)

Official Selection – Competition

Arrhythmia (Russia; 2017, 116′, International Premiere)

È la storia di una coppia in crisi, che deve fare conciliare un lavoro impegnativo (lui è un paramedico continuamente in movimento con l’ambulanza, lei è dottoressa al Pronto Soccorso) con i problemi del rapporto (l’alcolismo di lui, meravigliosamente interpretato da Aleksandr Yatsenko, meritato vincitore del premio come miglior attore) di coppia.

Il film riesce a catturare l’attenzione con una trama semplice grazie all’ottima regia e ad una recitazione encomiabile che riesce a mettere in scena una storia abbastanza contemporanea.

Voto: 8,5/10

Breaking News (Romania; 2017, 81′, International Premiere)

Alex è un reporter, che davanti a sé ha l’incarico più difficile della sua carriera: preparare un servizio “memoriale” per il suo fidato cameraman, tragicamente morto durante un reportage. In suo aiuto, non senza riluttanza, correrà la giovanissima figlia di lui, ottimamente interpretata da Voica Oltean (menzione speciale della giuria), in un viaggio che porterà Alex stesso a riconsiderare la sua vita e la sua professione.

Con una messa in scena non banale di un lutto familiare, inquadrato dal punto di vista alternativo dell’obiettivo giornalistico, il film si eleva sopra la media dei suoi competitor grazie alla recitazione dei due attori principali, non raggiungendo però livelli alti che potrebbero essere alla portata della storia.

Voto: 6,5/10.

The Cakemaker (Germania, Israele; 2017, 104′, World Premiere)

Dopo la morte del suo amante, Thomas lascia la sua Berlino, e il suo negozio, alla volta di Gerusalemme, la città natia di lui. Nonostante i pregiudizi per le sue origini tedesche riesce a ritagliarsi un lavoro da pasticcere nel bar di proprietà della vedova di lui, Anat. Lei non sospetta che l’innominato dolore che li unisce è l’amore per lo stesso uomo.

Indubbiamente il miglior film visto in competizione, un successo di pubblico (le standing ovation più lunghe degli ultimi 20 anni, a detta del direttore artistico del Festival) e anche all’interno della critica e della sala stampa, snobbato però in fase di premiazione. Un film gentile, che non rinuncia ad essere esplicito nelle tematiche delicate che tratta (non solo l’omosessualità, ma anche l’appartenenza identitaria ad una religione e ad una cultura) riuscendo ad essere alla portata di tutti e comprensibile da tutti. Meraviglioso sotto tutti i punti di vista (eccezionale la recitazione di Tim Kalkhof nei panni di Thomas), grazie al successo in Rep. Ceca sarà distribuito a breve negli Stati Uniti e nell’America Latina. Merita, tanto, tanto, tanto.

Voto: 10/10.

The Line (or. Ciara; Slovacchia, Ucraina; 2017, 108′, World Premiere)

Adam non è solo un duro e risoluto padre di famiglia, ma anche il boss di un cartello impegnato nel contrabbando di sigarette e clandestini attraverso il confine tra Slovacchia e Ucraina. Con l’avvicinarsi dell’ingresso dei primi nell’area Schengen, e il rafforzarsi dei confini, il fallimento di uno dei traffici lo porterà a riconsiderare i suoi stessi limiti.

Un thriller che avanza con un buon ritmo, nonostante forse si soffermi troppo nell’osservare e presentare i vari (tanti) personaggi che fanno parte delle famiglie coinvolte. Con un utilizzo intelligente del black humour, però, la sapiente regia di Peter Bebjak (vincitore del premio come miglior regista) riesce a tenere l’attenzione dello spettatore sulla storia, verso un finale non banale.

Voto: 7,5/10.

Corporate (Francia; 2016, 95′, International Premiere)

La vita della risoluta manager HR Emilie cambia nel momento in cui è testimone del suicidio di uno dei suoi impiegati. L’indagine sul caso diventa, quindi, un test morale per le azioni di una donna che, pur motivata da un’infinita devozione verso il suo lavoro, ha causato dolore per più di un impiegato.

Una superba Celine Sallette è, nettamente, la punta di diamante di un film “strano”, non classicamente francese nell’impostazione tecnica e molto americano nella trama, che avrebbe il potenziale per essere più efficace e d’impatto.

Voto: 5,5/10.

Daha (Turchia; 2017, 115′, World Premiere)

Il quattordicenne Gaza vive, con il padre Ahad, sulla costa del Mar Egeo; vorrebbe proseguire gli studi, ma il genitore lo incentiva ad aiutarlo con il suo lavoro parallelo: il contrabbando di clandestini.

Una storia molto attuale, messa da un punto di vista diverso, quello di un bambino che vorrebbe fuggire dal mondo in cui si ritrova coinvolto. Non è difficile empatizzare con lui, ma la sensazione è quella di un’occasione persa per fare un film “manifesto” di un tema che tocca la nostra quotidianità e attualità da anni ormai.

Voto: 4/10.

Keep the Change (Stati Uniti; 2017, 94′, International Premiere)

L’elegante ma apatico David incontra Sarah, un vulcano di energia, in un gruppo di supporto cui è obbligato da una sentenza. Una volta superati alcuni momenti di conflitto, i due diventano parte di una storia d’amore non banale che non cede, in nessun momento, ai cliché.

Pluripremiato al Tribeca e finanziato dal Sundance, Keep the Change è un film che prova a riscrivere il genere della classica commedia romantica newyorchese, riuscendo a farlo non soltanto grazie a personaggi (e attori) diversi, ma anche tramite una storia che, non rinunciando mai a intrattenere e sensibilizzare, mostra una coppia che non sente mai il bisogno di nascondere le proprie emozioni, neanche in una società riluttante.

Voto: 8,5/10.

Khibula (Georgia; 2017, 98′, World Premiere)

Poco dopo la sua elezione, il primo presidente georgiano democraticamente eletto è costretto ad abdicare per via di un golpe e a fuggire per cercare di evitare la cattura o, peggio, la morte.

Con picchi alti (Hossein Mahjoob nei panni del presidente Zviad Gamsachurdia) e bassi (le altre recitazioni, il ritmo della storia), Khibula assomiglia alla messa in pellicola di una piece teatrale, con l’aggiunta di scenografie mozzafiato che rendono onore al panorama caucasico. Nonostante si tratti di un bio-pic il film non riesce ad assomigliare ad uno, lasciando una sensazione agrodolce a chi lo guarda non conoscendo la storia del personaggio trattato.

Voto: 5/10.

Little Crusader (or. Krizacek; Rep. Ceca/Slovacchia/Italia; 2017, 90′, World Premiere)

Il piccolo Jan, unico discendente del cavaliere Borek, scappa di casa. Il suo ansioso padre si getta immediatamente a cercarlo, ma la disperazione per la ricerca inutile lo debilita lentamente.

Girato tra le campagne sarde e pugliesi, Little Crusader è un film che sarebbe stato appropriato (e molto più di impatto) negli anni ’60, perché degli anni ’60 ha tanto, per non dire tutto: tematica, utilizzo dell’immagine, sceneggiatura, recitazione, struttura. Nel 2017 è un film di cui si apprezzano le caratteristiche tecniche, ma risulta rivolto ad un pubblico troppo selettivo. Premiato come miglior film, in un sussulto di orgoglio nazionale.

Voto: 6/10.

Men Don’t Cry (or. Muskarci ne placu; Bosnia/Slovenia/Croazia; 2017, 98′, World Premiere)

Quando, poco meno di vent’anni dopo la fine delle guerre balcaniche, un gruppo di veterani di guerra si riunisce in un remoto albergo di montagna per alcuni giorni di terapia è difficile immaginare un’atmosfera tranquilla.

Diretto in maniera brillante, il film riesce a far passare in maniera forte l’importanza del perdonare gli altri solo dopo essersi perdonati, e il vasto cast interamente al maschile mette in evidenza picchi alti e meno alti di recitazione. Con un tema non banale, analizzato da una prospettiva abbastanza inedita (andando oltre la convenzione che il tempo lecchi le ferite) forse si poteva fare di più, ma il film è meritatamente tra i migliori della competizione (vincitore della menzione speciale della giuria).

Voto: 7,5/10.

Birds Are Singing in Kigali (or. Ptaki spiewaja w Kigali; Polonia; 2017, 120′, World Premiere)

È il 1994, e l’ornitologa Anna si trova nel mezzo del genocidio in Rwanda. Riesce a salvarsi e a portare con se, in Polonia, la figlia sopravvissuta di un collega, la cui famiglia è stata interamente uccisa. Dopo un difficile adattamento in Europa, le due faranno ritorno in Africa per un viaggio che non è solo una visita ai cari defunti, ma anche una scoperta di loro stesse.

Acclamato alla vigilia come un sicuro vincitore del premio come Miglior Film, alla fine ha portato a casa un ex-aequo come miglior attrice per le due protagoniste, indiscusse, della storia. Protagoniste che sono la vera forza e la calamita dell’attenzione dello spettatore, magnete di cui c’é bisogno vista la trama abbastanza sconnessa e irregolare, che fatica a risolversi in un finale unico, spesso percepito come diviso in più parti.

Voto: 7/10.

Ralang Road (India; 2017, 112′, World Premiere)

Le storie di quattro individui si intrecciano in una labirintica campagna ai piedi dell’Himalaya, fatta di villaggi e microcosmi sociali.

Per distacco il peggiore film del festival. Ha l’ambizioso obiettivo di mettere in scena le difficoltà dell’integrazione sociale e culturale, ma il continuo senso di caos e confusione che il film emana rende quasi impossibile prestare lo stesso livello di attenzione per più di 3 minuti consecutivi. È il primo film “indipendente” del regista, e la sensazione che si ha è quella di un tentativo di showcase di differenti abilità stilistiche, un meltin’ pot che però emerge nella peggiore maniera possibile.

Voto: 1/10.

Official Selection – Documentary

Another News Story (Regno Unito; 2017, 90′, World Premiere)

Un viaggio cronologico all’interno dell’emergenza migranti, con l’obiettivo che però non è posato soltanto sui profughi ma, in maniera abbastanza critica e senza filtri, sui giornalisti e sul loro modo di coprire la storia più importante dei nostri tempi.

L’alternanza dei punti di vista forse è troppo frenetica, finendo quasi con lo stancare lo spettatore, ma in un ora e mezza ben girata e montata il documentario riesce a dare un ritratto coerente ed efficace delle due anime della storia.

Voto: 7,5/10.

A Campaign of Their Own (Svizzera; 2017, 74′, International Premiere)

È la storia, dietro le quinte, della campagna alle primarie democratiche di Bernie Sanders, con l’obiettivo che è interamente centrato su alcuni dei suoi più fedeli supporters.

In una stagione particolarmente florida di docu-film sulle ultime elezioni statunitensi, A Campaign of Their Own si distingue per essere capace di fornire un ritratto completo e non banale di quella fetta di popolazione che ha sostenuto, con rinnovato entusiasmo, la candidatura di Sanders e forse ha deciso le elezioni non trasportando lo stesso entusiasmo sulla candidatura Clinton.

Voto: 7,5/10.

The White World According to Daliborek (or. Svet Podle Daliborka; Rep Ceca/Slovacchia; 2017, 105′, World Premiere)

Dalibor ha 40 anni, un lavoro stabile, ma vive ancora con la madre, gioca alla PlayStation e passa il tempo libero a scrivere canzoni piene di rabbia e girare horror amatoriali. E venera Adolf Hitler.

Un ritratto non banale e molto efficace di un uomo confuso e insicuro che trova rifugio in una ideologia che trasmette forza e sicurezza. Un film che potrebbe essere girato in un qualsiasi paese del mondo occidentale del 2017, un finale che termina senza compromessi.

Voto: 8/10.

Special Events

A Ghost Story (Stati Uniti; 2016, 93′, European Premiere)

Casey Affleck, al suo primo film dopo il Premio Oscar, e Rooney Mara sono le punte di diamante di un film unico nel suo meditare l’approccio all’amore, al lutto, con una presenza eterea che sovrasta il rapporto.

Non il classico film che ci si aspetta da un attore fresco di Premio Oscar, A Ghost Story è un film quasi innovativo nel panorama odierno, che tanto deve alla bravura dei due attori principali (soprattutto la Mara), la cui coerenza e linearità però fatica a convincere del tutto.

Voto: 6/10.

Wind River (Stati Uniti; 2016, 111′)

Cory (Jeremy Renner) è a caccia nella desolata tundra nevosa del Wyoming quando si imbatte nel corpo esanime di una giovane donna nativa americana. L’indagine, guidata dalla debuttante agente FBI Jane, porterà alla luce una storia sconvolgente.

Presentato al Sundance e a Cannes (premio Un Certain Regard come miglior regista a Taylor Sheridan) il film è un ottimo thriller la cui forza è sì dovuta all’inospitale ambiente in cui è ambientata, ma anche alla superba recitazione di Renner in un ruolo pieno di sfaccettature e difficile da mettere in scena. Vincitore, a Karlovy Vary, del Premio del Pubblico.

Voto: 8/10.

Ceremonies Movies

Opening Ceremony: The Big Sick (Stati Uniti; 2017, 124′)

Come altri comici, Kumail sogna di lasciare i piccoli “palchi di provincia” ed esibirsi davanti a platee più numerose. Con un contesto familiare troppo tradizionale e conservatore per lui, e un monologo personale che stenta ad affascinare, la sua vita cambia quando s’innamora di Emily e del suo eccentrico senso dell’umorismo.

Basato sulla storia vera del rapporto tra l’emergente comico Kumail Nanjiani e della moglie Emily Gordon, il film sprizza autenticità e purezza da tutti i pori. Conquista con risate continue e rilassanti anche il più riluttante degli spettatori, e riesce a farlo evitando i cliché della classica storia-d’amore-che-va-contro-i-dogmi-familiari grazie ad una trama non banale e scontata. Pensato per una distribuzione su scala ridotta, il successo degli ultimi mesi ne ha aumentato la diffusione a livello mondiale e potrebbe trasformarlo nella sorpresa dell’anno.

Voto: 9,5/10.

 

Horizons

Fortunata (Italia; 2017, 103′)

Fortunata, parrucchiera della periferia di Roma e madre single devota alla figlia, è determinata a lasciare il suo lavoro a domicilio per aprire il suo salone personale.

Una fantastica interpretazione di Jasmine Trinca in un melodramma ben diretto da Castellitto, un film che ha ben figurato a Cannes e che, per le sue componenti e per il suo messaggio, sembra essere maggiormente rivolto e adatto ad un pubblico internazionale, dove potrebbe trovare maggiori fortune.

Voto: 7,5/10.

The Beguiled (USA; 2017, 94′)

È il 1864 e un soldato ferito trova rifugio in un collegio femminile in Virginia. Durante la convalescenza le attenzioni rivoltegli dalle giovani ospitate dal collegio presto si tramutano in gelosie e rivalità.

Remake dell’omonimo film del 1971 e in competizione a Cannes, dove Sofia Coppola è diventata la seconda donna nella storia a vincere il premio di miglior regista, è un thriller che ti tiene incollato allo schermo grazie alla forza delle eccellenti recitazioni (su tutti, una strepitosa Nicole Kidman) e di una storia che, seppur poco dinamica, non manca di catturare costantemente l’attenzione.

Voto: 8,5/10.

Altre considerazioni

  • Karlovy Vary, come città, è stata una sorpresa: piacevole, piena di colori nonostante alcuni edifici di stampo comunista che stonano con l’architettura neoclassica, piena di gente di tutte le età (non così scontato in una città termale).
  • Festival molto ben organizzato: una macchina ben oliata, che filava senza problemi e riusciva ad avere le sale sempre piene con l’offrire l’ingresso gratuito a chi si posizionava in fila, fuori dalle sale, a reclamare eventuali biglietti venduti (o riservati) ma non reclamati fino a 10 minuti prima delle proiezioni.
  • Dei tre ospiti “hollywoodiani” il più empaticamente coinvolto è stato, senza dubbio, Jeremy Renner, presentatosi in terra ceca nonostante un infortunio sul set e ben a suo agio nel ruolo di intrattenitore.
  • Un’esperienza indimenticabile, da rifare!

 

Poco meno di 2016 Serie TV

Non amo particolarmente i classificoni, cui tendo a preferire molto spesso gli elenchi.

Siccome negli ultimi anni alla desease per la pallacanestro e lo sport in generale ho affiancato quella per le Serie TV, in questo post elencherò quelle che nel 2016 ho visto, ho amato oppure odiato, ho iniziato e non terminato o messo in sospeso (le ore del giorno sono 24 per Jack Bauer, figurarsi per me).

Vedrete anche serie non necessariamente uscite nel 2016, disclaimer.

L’ordine sarà rigorosamente casuale, e per ognuna indicherò, secondo la mia personalissima opinione, “perché va vista” o “perché non va vista”, strong e low points, e altra roba random.

(Non c’é di che)

Nel 2016 ho amato

The Man in the High Castle – Season 2 (Trailer)

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Primo posto nell’elenco dovuto esclusivamente al fatto che è stata l’ultima vista in ordine temporale, ma anche per qualità: la prima stagione mi aveva lasciato con molti punti di domanda, spesso risposti nella seconda. Adesso odio visceralmente Amazon Video perché non so quando (non voglio nemmeno mettere in dubbio il “se”) potrò vedere e godere della S03. Dannati.

Perché va vista: perché migliora in maniera esponenziale la già buona prima stagione, arricchendo la storia e dando quella spinta necessaria all’intero progetto, spinta che può portare ad una terza stagione capolavoro (e verosimilmente conclusiva, vista la vita “breve” che tendono ad avere oggi le Serie TV)

Perché non va vista: perché dopo aver visto il season finale non riuscirete a stare per 11 mesi nell’attesa della terza stagione.

Osservazioni random

  • Se nel corso della prima stagione vi è venuta parecchia curiosità sul “come è questo mondo diviso a metà” (tipo “chi si è preso cosa”), ci saranno un po’ di scene qui e lì utili a togliervi queste curiosità;
  • Il Ministro Tagomi, per distacco, uber alles
  • … con Rufus Sewell (aka John Smith) l’indubbio Most Improved Player della stagione;
  • Alexa Davalos sei una dea, e se evitassi di ripetere in continuazione la faccia da cane bastonato potremmo ammirarti con più piacere;
  • Tzi Ma aka Cheng Zhi aka il secondo miglior villain di 24 (dopo Charles Logan, of course) che fa il generale giapponese è un must see di pregio.

Mozart in the Jungle – Season 3 (Trailer)

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Avete presente la rabbia maturata contro Amazon per il sentimento di vuoto che ti lascia l’attesa della terza stagione di TMITHC? Bene. Moltiplicatela per 1000.

La terza stagione di Mozart in the Jungle, ambientata parzialmente a Venezia con un cast arricchito da Monica Bellucci cantante lirica (…) e da camei raminghi di Christian DeSica (che ho apprezzato pur non apprezzando lui), serve a ricordarci quanto è bello il mondo, quanto 3 ore e mezza (10 episodi x 20 minuti) passino troppo velocemente quando ci si diverte, che Gael Garcia Bernal aka Rodrigo de Souza è uno dei binomi attore-personaggio meglio riuscito (infatti ha vinto meritatamente il Golden Globe a inizio anno), che Lola Kirk è la vicina di casa di cui ci innamoreremmo tutti se fosse la nostra vicina, che la musica è bella e che la vita lo è ancor di più.

Specie quando c’é Mozart in the Jungle.

Perché va vista: perché oltre ai soliti pregi di cui si compone questo gioiello di serie nella terza ci sono delle chicche inedite che la arricchiscono notevolmente.

Perché non va vista: copincolla quanto detto per TMITHC.

Osservazioni random

  • C’é una certa scena molto interessante della Bellucci;
  • Il settimo episodio è una delle cose più belle mai partorite dalla serialità televisiva negli ultimi 5 anni almeno;
  • C’é Baron Davis;
  • Malcom McDowell è un distillato puro di recitazione;
  • C’é Lola Kirk.

The Affair – Season 1-2-3 (in progress) (Trailer prime tre stagioni)

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Con The Affair inizia la lista delle serie che nascono prima del 2016 ma che ho recuperato soltanto nel 2016 perché boh.

Ciò che mi piace tantissimo di The Affair è che nonostante sia una serie sostanzialmente lenta (30 minuti di “focus” a puntata a personaggio non sono proprio rapidi e lisci, specie quando poi l’altro personaggio principale della puntata ripercorre gli stessi “eventi” e mi fermo qui perché altrimenti spoilero troppo) riesce a tenerti per tutti i 60′ dell’episodio attaccato allo schermo con interesse.

Perché va vista: perché anche un episodio “filler” riesce a tenere alta la soglia dell’attenzione, dote rara per una serie TV di questi tempi.

Perché non va vista: perché odierete tutti i personaggi (recitati alla stragrande).

Sherlock – Season 123-(4 in progress)

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In ottima posizione tra le cose di cui mi vergogno di più nel 2016 ci sta, senza alcun dubbio, l’aver aspettato 6 anni prima di aver visto Sherlock.

Perché va vista: devo realmente convincervi?

Perché non va vista: Seriously?

Billions – Season 1 (sta arrivando la 2!)

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Serie in se abbastanza cervellotica e difficile da comprendere, soprattutto per le tematiche trattate (la finanza), si rivela di culto soprattutto per le clamorose performance dei due attori protagonisti, Damien Lewis e Paul Giamatti, artefici di due delle migliori performance attori/personaggi dell’anno. Incredibilmente snobbata sia agli Emmy che ai Golden Globe.

Perché va vista: Damien Lewis e Paul Giamatti

Perché non va vista: perché faticherete a seguire la trama se non avvezzi di temi finanziari

House of Cards – Season 4

house-of-cards-season-4-970-80La quarta è stata la stagione del grande rilancio di House of Cards, dopo l’interlocutoria terza stagione: un colpo di scena dietro l’altro, una recitazione come sempre di altissimo livello ed una storia coerente, accattivante e non troppo assurda.

Grazie Willimon.

Perché va vista: perché è la stagione che ogni fan meritava, e se non siete fan di House of Cards REDIMETEVI.

Perché non va vista: perché è da puro binge-watching, e farete immensamente fatica a non dire “ancora” -e dovrete dirlo ancora per un po’.

The Night Of – Season 1

the-night-of-1349WOW.

HBO at his finest.

È difficile trovare qualcosa che non vada in The Night Of. Il Pilot è praticamente perfetto. Lo sviluppo della storia è ottimo ed essendo una stagione auto-conclusiva (non è stata pensata una seconda stagione) gli sceneggiatori hanno lavorato con il chiaro compito di chiudere il tutto, lasciando però un finale coerente con le dinamiche nate durante gli otto episodi.

La recitazione poi è sublime: sfido a trovare un attore scarso o un personaggio debole, in proporzione al minutaggio “concesso”.

Perché va vista: per gli amanti del genere (crime drama) è praticamente la serie perfetta.

Perché non va vista: se non amate le serie lente, state lontani (sbaglierete).

11.22.63 – Season 1

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Premessa: non ho letto il libro (come non ho -ancora- letto La Svastica sul Sole cui si ispira The Man in the High Castle).

Anche qui siamo davanti ad una serie auto-conclusiva, anche qui siamo davanti a degli sceneggiatori (e che sceneggiatori) che hanno lavorato con il preciso compito di dare una conclusione alla storia, che pertanto scorre via molto bene, mantenendo alte l’interesse e l’attenzione.

A voler essere pillicusi, la recitazione complessiva non è di altissimo livello, ma ho comunque apprezzato molto la serie per l’ottima capacità di messa in scena del periodo storico in cui è ambientata (in una parola, scenografia), ed in particolare delle problematiche che affronta, all’inizio, il giovane professore interpretato da James Franco nel tornare indietro nel tempo di 50 anni.

Perché va vista: se amate il connubio storia/fantascienza e non disdegnate una storia d’azione, siete nel posto giusto.

Perché non va vista: perché ce l’avete ancora con JJ Abrams per Revolution (vi capisco).

Nel 2016 non ho apprezzato tantissimo

2 Broke Girls – Season 1 to 5 (ancora non ho toccato la sesta)

2-broke-girlsIl mio rapporto con 2 Broke Girls è stato altalenante: l’ho iniziata in un periodo in cui non seguivo una serie comedy (estate) e mi ci sono trovato subito; con il progressivo scorrere delle stagioni, però, l’ho seguita più per routine che per effettivo interesse (oltre al fatto che generalmente non abbandono MAI una serie TV, tranne casi particolari su cui mi soffermerò in avanti).

Il problema è che, stagione dopo stagione, questa serie è stata incapace di rinnovarsi e autoalimentarsi, finendo per cadere negli stessi cliché e nelle stesse gag, con quelle poche novità a livello di trama che sono sempre state abbandonate rapidamente, tanto da farmi passare la voglia di vedere la sesta stagione.

P.S. ANCHE MENO RISATE FINTE OK?

Perché va vista: perché, nella linea generale, è una comedy abbastanza unica nel suo genere

Perché non va vista: perché alla lunga stufa, e assai

Deutschland83 – Season 1

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Partita con una premessa interessante (è un genere che nel 2016 ho scoperto di amare molto), la metto qui perché ad un certo punto, oltre ad aver fatto molta fatica a seguirla, ho proprio perso l’interesse. Probabilmente, con un rewatch, esprimerei un giudizio più netto, ma non sono proprio incentivato a riguardarla.

Gomorra – Season 2

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Se la metto qui è, esclusivamente, perché il BANALISSIMO finale, roba che ho avuto la tentazione di distruggere il computer, gli ha fatto perdere una quantità inconsiderevole di punti.

Ed è un peccato, visto che è sicuramente il meglio che è in grado di offrire oggi la fiction/serialità italiana (e per distacco pure), specialmente a livello attoriale, scenografico e musicale. Però quel finale…

Perché va vista: perché oggettivamente è un prodotto di qualità molto alta, oltre a “doverla vedere” per “conoscenza generale”

Perché non va vista: come poterlo dire senza spoilerare? Diciamola così: guardate -attentamente- le prime due stagioni e traete voi le conclusioni.

Marseille – Season 1

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L’unico motivo per cui questa serie è qui e non nella categoria inferiore è l’ottima recitazione di Gerard Depardieu.

Per il resto circolare, non c’é nulla da salvare, ma proprio nulla: musiche orrende, inquadrature da vertigini, recitazione orripilante. Male male male male male male.

Perché va vista: Gerard Depardieu, e poi perché Marsiglia è una bella città.

Perché non va vista: per tutto il resto.

Nel 2016 ho “odiato”

Quantico – Season 1 and 2 (finora)

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Dunque.

  1. Se vi piace Priyanka Chopra (bene), può avere un senso guardarla. Idem se apprezzate quei 40 minuti d’intrattenimento seriale settimanale conditi da personaggi di bell’aspetto (oh, non ne trovi uno/una brutto/a manco a pagare a momenti).

    2. Se vi piacciono le robe “alla 24”, statene lontani, ma proprio a gambe levate. Storia senza senso, plot twist inseriti a casaccio, vuoti di sceneggiatura mostruosi, recitazione media poco convincente, però è un’americanata quindi come ascolti va molto bene (anche in Italia).

Perché la qualità ci ha rotto il cazzo (cit.)

Perché va vista: leggi punto uno.

Perché non va vista: leggi punto due. E poi… sei proprio sicuro di avere 40 minuti a settimana da perdere?

Wayward Pines – Season 2

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Fino alla quarta puntata della prima stagione Wayward Pines era una serie decisamente passabile, finanche godibile, anche per un non amante del genere. Poi un cliffhanger (che non vi spoilererò) ha dato il via ad una serie di plot-hole imbarazzanti, oltre ad aver fatto venire alla luce una serie di robe oggettivamente scarse.

Ed è un peccato, visto che a livello di autorialità siamo messi molto bene.

Non paga di tutto ciò, la Fox ha deciso -a sorpresa- di regalarci un’altra stagione, teoricamente migliore della precedente ma che lascia la stessa sensazione, una volta conclusasi la visione: quella di averti fatto perdere tempo.

Perché va vista: perché vorrebbe essere Twin Peaks.

Perché non va vista: perché non è Twin Peaks, ma manco per scherzo.

Scandal – Season 1 to 3 (e poi allegramente abbandonata)

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Ci ero cascato.

A metà della seconda stagione, più o meno, dentro di me si è fatta strada la sensazione, che oggi ripudio con tutto me stesso, che Scandal fosse una serie fighissima, coinvolgente, accattivante e intrigante.

Tanto che stavo quasi per abbandonare il forte spirito critico con il quale di solito guardo tutte le serie TV che non hanno Kiefer Sutherland nel cast o che non appartengono ai generi che tendenzialmente amo.

Per fortuna non l’ho fatto. Perché Scandal è diventata la terza serie, dopo Lost e Glee, che ho abbandonato prima della sua effettiva conclusione (e che non ho più recuperato).

Non riesco a dire di più, l’ho definitivamente abbandonata a settembre e ho poi rimosso tutti i miei ricordi relativi alle assurde tresche tra Olivia Pope e l’establishment di Washington D.C., alla volubilità dei personaggi, ai casi “assurdi” trattati, alla quasi assenza di buon senso. Madre mia.

Nel 2016 ho iniziato a guardare (too soon to judge)

Designated Survivor

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Tra i sogni da liceale, da amante assoluto di 24, c’é sempre stato quello di vedere Kiefer Sutherland diventare POTUS, pertanto avevo un hype smisurato per Designated Survivor.

I primi 10 episodi (è in pausa fino a marzo) non mi hanno affatto deluso, tutt’altro. Mi piace moltissimo. Seppur siamo lontani dalla serie perfetta (il tema -pur trattato in modo originale- è abbastanza inflazionato), seppur ci sono delle dinamiche strane nell’evoluzione nei personaggi, seppur ci sono sub-plot prevedibili, la serie finora sta riuscendo abbastanza bene nel suo obiettivo: 40 minuti a settimana che ti tengono attaccati alla sedia con una storia comunque intrigante che sa dare “elementi” diversi (o approfondirne vari) ogni settimana.

E poi Sutherland è roba da nomination agli Emmy.

Divorce

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Ho visto i primi tre episodi e sono ancora troppo “indeciso” sull’esprimerne un giudizio, finanche sul continuare a guardarla. Il fatto che siano 25-30 minuti a puntata, però, aiuta moltissimo.

Black Mirror

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Prendere quanto detto per Sherlock e applicarlo anche qui, con le dovute modifiche.

The Young Pope

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A me Sorrentino piace molto, e Il Divo è nel mio Pantheon dei film preferiti dal minuto in cui ne ho visto la prima scena. Premesso che sono al 5° episodio, e che faccio “fatica” a continuarla, ho la sensazione (che sicuramente cambierà una volta finita la stagione) che sarebbe stata ancora più “figa” con un Sorrentino più tendente al Divo che alla Grande Bellezza.

Timeless

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Mi sta piacendo molto (sono al quarto episodio), anche se non riesco a scacciare l’insopportabile sensazione che la fregatura è dietro l’angolo. Per il resto non riesco a dire molto di più.

Westworld

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È oggettivamente un capolavoro. Avendone visti solo i primi due episodi però non voglio dire di più, anche perché è una serie che va compresa per bene e per cui è impossibile trarre molti giudizi affrettati.

History is what makes us.

Assistere alla storia è sempre un qualcosa di particolare.

Sin da quando David Cameron mantenne la promessa di un referendum per l’uscita dall’UE in caso di vittoria alle elezioni 2015 (promessa fatta esclusivamente per unificare temporaneamente un partito spaccato: prendi nota, Italia) e stabilì la data del 23 giugno, ebbi una strana sensazione.

Cameron, dopo aver (giustamente) rispettato una (folle) promessa elettorale, andò a Bruxelles a negoziare ‘regole d’ingaggio’ per la permanenza UK in UE ancor più convenienti delle regole che, fino a ieri (o comunque fino ad effettiva Brexit), regolavano detta permanenza.

Uno status privilegiato: basta conoscere un minimo la storia e la struttura dell’Unione Europea per capire come il Regno Unito abbia trattato l’UE come il gruppo di amici con cui fare bisboccia quando si vuole ma dal quale dileguarsi al momento di pagare il conto del bar.

La promessa di referendum, unita ad un’opposizione laburista quantomeno flebile, consegnò poco più di 12 mesi fa ai Conservatori una maggioranza comoda, confortevole, utile per governare il paese senza particolari difficoltà fino al 2020.

La scommessa di Cameron aveva pagato. Ma quando scommetti una volta, è difficile smettere.

Motivo per cui Dodgy Dave decise di giocare su un altro tavolo, negoziando appunto delle nuove regole d’ingaggio, ovviamente (perché a Bruxelles non sono idioti) condizionate al voto pro-Remain.

A quel punto Cameron, il leader naturale e legittimato di un partito Conservatore ed Euroscettico (un controsenso) diventa il più accanito sostenitore del Remain. Consapevole che al Remain, a quel punto, si legava il suo destino politico.

Personalmente mi bastò, un paio di mesi fa, assistere ai primi discorsi di “apertura della campagna elettorale” per capire che il Remain non avrebbe avuto una chance.

Questo perché Cameron ha personalizzato su di se la campagna elettorale, approfittando di un partito laburista diviso internamente sulla leadership di Corbyn (e, in seguito, dall’agrodolce risultato delle amministrative di inizio maggio), lasciando campo fertile ai suoi oppositori naturali (l’UKIP di Farage) e meno naturali (Boris Johnson ed i Conservatori pro-Leave).

Cameron ha condotto una campagna elettorale disastrosa perché non poteva non condurla in tale maniera essendo l’intero referendum il frutto di due scommesse irresponsabili.

Ed è anche per questo motivo che i punti più bassi di questa brutta campagna elettorale (su tutti il brutale omicidio di Jo Cox) non hanno modificato, nonostante i fiumi d’inchiostro spesi dai tanti analisti da salotto che han firmato fior di editoriali per convincerci del contrario, le intenzioni di voto delle persone.

La maggioranza dei britannici ha votato per il Leave perché la maggioranza dei britannici non ha idea di che cosa sia l’Unione Europea: Farage, Johnson, i tanti quotidiani pro-Brexit hanno avuto vita facilissima nel convincere quelle fasce della popolazione verso cui i miei coetanei oggi si scagliano perché l’Unione Europea non è stata capace di farsi capire.

Ma attenzione: non possiamo soltanto dare la colpa a Bruxelles, incapace di “presentarsi”.

Le “colpe” bisogna darle, in maniera responsabile, anche a chi informa ed educa la gente.

È difficile, persino per un pro-UE, definire e spiegare bene a chi non capisce cosa sia l’Unione Europea.

La difficoltà nel capire un argomento tanto complesso poi può anche portare ad ore ed ore di analisi giornalistiche vacue e futili dove ci si scanna per opinion poll dal valore pari a zero, sondaggi per fasce d’età prese come verità assoluta, punti del dibattito televisivo (italiano, e qui ci tengo a precisare. Ho passato 6 ore sintonizzato su Sky News tra ieri sera e stanotte, risultati e commenti analitici secchi, nessuno che litigava. Del dibattito italiano mi rimarrà in mente Brunetta che litiga con Vespa e Monti che litiga con Tremonti) che ti invogliano a spegnere la televisione.

E poi ci stupiamo che la gente non capisce? Ci incazziamo con chi è “vecchio e poco istruito” perché decide per noi a maggioranza?

Rispetto chi lo fa, ma non sono d’accordo.

Incazziamoci se sappiamo di aver dato del nostro meglio, informando e confrontandoci.

È snob e anche superficiale ridurre il risultato di un voto ad una differenza di classe -tutta da dimostrare, tra l’altro: il voto è segreto ed i flussi di voto sono una cosa che ha valore da dimostrare- e può essere finanche offensivo.

Quando una parte vince sull’altra, specie su un referendum da “Yes” o “No”, è perché ha saputo fare valere le sue ragioni in maniera più efficace, che ci piaccia o no.

Stamattina Farage è stato facilmente e teneramente (nel senso che era teneramente imbarazzante osservarlo inciampare sulla questione) sbugiardato sui £350milioni “risparmiati” (virgolette necessarie) grazie all’uscita dall’UE da destinare al NHS (il servizio sanitario nazionale). Un baluardo della campagna Leave che, a urne chiuse, si è rivelato nonsense agli occhi di tutti.

A urne chiuse.

Bravi tutti.

Chiudo su una riflessione su Londra.

Oggi c’é stato chi mi ha chiesto “che aria tirava”.

Appena sveglio, alle 8, e appena letto su twitter delle dimissioni di Cameron mi sono messo la prima (brutta) camicia che ho trovato in stanza e sono corso a prendere la metro alla volta dell’area di Westminster.

Davanti a Downing Street ho visto gente di tutti i tipi: sostenitori del Leave, del Remain, turisti, curiosi, cittadini europei interessati. Pittori improbabili, gente avvolta da bandiere.

Tutti avevano in comune, oltre al desiderio di volere assistere alla storia, uno straordinario, incredibile e per certi versi inquietante senso di tranquillità. Interiore ed esteriore.

Fermo la mia caratterizzazione per non scadere in un’eccessiva retorica, ma a differenza di alcuni miei amici e coetanei rabbuiati e impauriti dal futuro, io continuo ad essere tranquillo e ad avere fiducia in Londra.

Continuo ad averla quando passo ore delle mie giornate a fare job seeking, perché Londra mi ha accolto e, nonostante dovrò lasciarla (temporaneamente?) martedì sera, so che mi accoglierà sempre.

Perché è la città dove a tutti vengono date chances (sì, plurale), e dove tutti possono dimostrare di valere (e di valerla).

E questo non dipende e non sarà modificato da nessun Leave.