Nel prossimo episodio dell’Italbasket

La solidità e continuità nei risultati è un segnale positivo solo se c’é margine di crescita. Negli ultimi tre Europei la nazionale italiana ha raggiunto lo stesso risultato (Top 8), disputando però competizioni completamente diverse fra loro. Se comunque 6 giocatori (Aradori, Belinelli, Cinciarini, Cusin, Datome, Melli) su 12 sono sempre stati gli stessi, è pur vero che l’aver visto 22 giocatori diversi alternarsi nel roster dell’Italia tra Slovenia 2013 e Tel Aviv/Istanbul 2017 non sia stato garanzia di coerenza di un progetto tecnico.
Nei 16 giocatori “alternati” c’é lo specchio perfetto di quello che è attualmente il movimento cestistico italiano: giocatori di talento ma caratterialmente fragili, promesse non mantenute, onesti mestieranti, giovani considerati tali in età quando in teoria tali non sono più, parvenu totali.
Tutto questo è stato dato in mano al miglior allenatore italiano degli ultimi 25 anni (almeno) e a quello che comunque è uno dei migliori allenatori italiani della sua generazione (e ha tutte le carte in regola per entrare, anche lui, nel club dei migliori di sempre).
Essere regolarmente arrivati nel G8 del basket continentale non è qualcosa di scontato (non succedeva dal 1995–1999, quando in precedenza era SEMPRE successo tra il 1965 e il 1991; a Stoccolma e Atene seguirono anche Belgrado, Saitama e Madrid), ma è un qualcosa che va bollato come positivo solo se rappresenta il punto di partenza di un ciclo (è il caso dell’affascinante Lettonia), non se è il punto più alto di una generazione cui seguirà un futuro incerto.

Dei 5 debuttanti assoluti in questo Eurobasket, 4 (Filloy, Biligha, Baldi Rossi e Abass) l’anno prossimo disputeranno una coppa europea, con il solo Abass che giocherà una competizione che teoricamente non gli consentirà di disputare le partite di qualificazione ai Mondiali 2019, unica porta d’accesso per Tokyo 2020.

Dei 12 visti in campo tra Israele e Turchia, il solo Christian Burns, nella prossima stagione, non potrà mettersi alla prova, con la sua squadra di club, in Europa.
Il confronto col basket continentale, che tanto ha giovato a due giocatori borderline come Melli e Hackett, è probabilmente l’unica speranza di crescita che avrà una generazione che si annuncia popolata di tanti potenziali buoni/discreti giocatori, ma con pochissime (forse zero) punte di eccellenza.
Negli anni immediatamente successivi al meraviglioso argento di Atene, il movimento cestistico italiano quasi si bullò dell’essere stato in grado di raggiungere risultati d’élite senza la presenza di giocatori NBA: la retorica della nazionale più forte di sempre perché ci sono 3/4 giocatori NBA nasce da lì.
Nel giudicare la prossima generazione del basket italiano, però, bisogna tenere conto di come quell’epoca d’oro si fondò su giocatori che, agli inizi delle loro carriere, potevano spesso essere considerati come noi oggi consideriamo i Mussini di questo mondo.
Loro ebbero la possibilità di crescere davvero, ed entrare nel club dei migliori giocatori continentali, non grazie a regole protezionistiche che ne garantivano la presenza a roster, ma grazie al confronto che le migliori squadre italiane, all’epoca, potevano regolarmente sostenere contro le migliori squadre europee.
Progetti tecnici meritori e vincenti sul territorio nazionale come quelli di Reggio Emilia, Trento, Venezia o come può essere, in futuro, la nuova Virtus Bologna hanno margine limitato (e mediocre) se l’accesso all’Europa di queste squadre viene regolamentato sulla base di faide stucchevoli e prese di posizione politiche che nulla hanno a che vedere con il bene del movimento cestistico nazionale.
L’anno di Eurocup perso da Reggio Emilia e Trento è stato un anno in cui, ad esempio, un giocatore come Baldi Rossi non ha avuto la possibilità di recuperare quell’Europa persa, causa l’infortunio della stagione precedente, e di conseguenza catapultato in un Europeo con pochissima esperienza internazionale.
L’assurdo nuovo calendario FIBA è un qualcosa che può essere utilizzato a nostro favore: re-inserendo giocatori come i fratelli Gentile, o introducendo progressivamente i migliori rappresentanti italiani non impegnati tra NBA ed Eurolega si avrà la possibilità di valutare, con tutte le pinze del caso, l’effettiva profondità del nostro movimento, che deve far suo l’umiltà di motti come #SiamoQuesti ed evitare di scadere, nuovamente, in proclami di arrogante grandeur non sostenuti da risultati del suo recente passato.

Come migliorare il calcio italiano (rimanendo con 20 squadre in Serie A)

ORGANIZZAZIONE CAMPIONATO

  • Serie A e Serie B gestite insieme, da stesso ente
  • Entrambe le leghe a 20 squadre, inizio e fine in stessa data (la B gioca durante la pausa per Nazionali e non ha turni infrasettimanali)
  • 2 retrocessioni in B e 2 promozioni in A, a meno che tra 17° e 18° di A ci siano più di 6 punti di distacco: se è così, retrocedono le ultime 3 e salgono in A le prime 3 della B. Così facendo si garantisce che le ultime 3 giochino fino alla fine e puntino a fare più punti possibile.
  • Se non c’é distanza di punti, playoff incrociati tra A e B -> da 16° a 19° di A giocano partite di andata e ritorno nel giro di due settimane, la squadra che rimane gioca spareggio in Gara secca contro la vincente dei playoff tra le squadre da 2° a 5° posto in B. La “finale” si gioca in casa della squadra di B.
  • Paracadute esiste, ma parte da quota minima fissa, cui si aggiungono bonus che dipendono da utilizzo giovani (a prescindere da nazionalità), rispetto di parametri economici, affluenza stadio (conviene avere lo stadio pieno). Insomma, chi gioca “a perdere” per intascare paracadute fine a se stesso, intasca due lire (ergo gioco non vale la candela).

COPERTURA MEDIATICA

  • In TV vanno fino a un massimo di 6 partite per turno (mai due partite in contemporanea nello stesso orario in TV).
  • Tutte le squadre devono andare in TV per almeno 10 partite e non più di 30/31.
  • Calendario partite “televisive” viene reso noto all’inizio di entrambi i gironi (andata&ritorno)
  • Le altre 4 (minimo) partite per turno vengono trasmesse solo nella provincia della squadra in trasferta, in luoghi di aggregazione (cinema, pub, stadio delle squadre…).
    Così diritti TV aumentano di valore e prodotto aumenta di interesse.
  • La finale dei playoff incrociati viene trasmessa in chiaro.

(NON) È SEMPRE CALCIOMERCATO

  • Calciomercato che si chiude come la Premier (giovedì prima della prima giornata di campionato).
  • NO a Gennaio con unica eccezione che squadre hanno a disposizione max 2 nuovi tesseramenti per sostituire infortunati lungo-degenti (almeno 3 mesi di stop).

GARANZIE

  • Seri regolamenti economici
  • No ripescaggi, al massimo si aumentano promozioni
  • Incentivi economici (maggior quota diritti TV, ad esempio) a chi ha stadio di proprietà, minutaggio giovani (U23, a prescindere da nazionalità: gioca chi è bravo), solido progetto economico verificato da organi indipendenti
  • SI al VAR, SI al tempo interrotto durante una VAR Review (quindi non si crea problema di maxi recuperi), SI a una chiamata VAR a squadra (ma in casi più circoscritti, richiesta va fatta a quarto uomo)

NON C’È SOLO IL CAMPIONATO — COPPA ITALIA & SUPERCOPPA (da proposta per #stocalcio di Vox2Box)

Capitolo Coppa Italia

  • In totale si iscrivono 136 squadre tra A, B, Lega Pro, Dilettanti (NO squadre B)
  • Lega Pro e Dilettanti, per un totale di 96 squadre iniziali, disputano due turni preliminari per ridursi a 24. Dal terzo turno entrano in gioco le 20 di A e le 20 di B.
  • Sorteggio Integrale, chiunque può capitare con chiunque
  • Per ospitare partita in casa stadio deve avere minimo 3,500 posti agibili, se no si gioca in stadio più vicino
  • Terzo turno (primo con A e B) si gioca il primo weekend di Gennaio (campionati A e B si fermano)
  • Sedicesimi, Ottavi e Quarti si giocano in weekend di pausa campionato di A e Sedicesimi+Ottavi si giocano in weekend di pausa campionato di B
  • Semifinali e Finale in campo neutro deciso a inizio stagione (Semifinali stadio da min. 40.000 posti; finale in stadio da minimo 50.000; si ruota ogni anno)

Capitolo Supercoppa Italiana

  • Torneo a 4 squadre “Final Four” con vincitrice Serie A, vincitrice Serie B, vincitrice Coppa Italia e detentrice del trofeo. Si gioca all’estero a inizio stagione.
  • Se squadre coincidono si attinge a classifica Serie A (finalista Coppa Italia, finalista Supercoppa anno precedente o prima squadra “disponibile” in Serie A). Ad esempio quest’anno avrebbero giocato: Juventus, Lazio, Milan, Spal.
  • Trasmesso in chiaro.

“Stick to Sports”

NY Times: Trump Blasts Warriors’ Curry. LeBron James’s Retort: ‘U Bum.’

Wash Post: Trump turns sports into a political battleground with comments on NFL and Steph Curry

Fox News: Trump vs. pro sports: President finds new target in America First agenda

Breitbart: Donald Trump Cancels NBA Championship Invitation to Steph Curry and the Warriors

I quattro link precedenti, diversissimi fra loro, parlano dello stesso fatto di cronaca: i Golden State Warriors, campioni NBA uscenti, non andranno in visita alla Casa Bianca durante la loro annuale trasferta nella capitale statunitense, rompendo una tradizione che vede le franchigie campioni uscenti nei principali sport statunitensi incontrare il Presidente degli Stati Uniti.

A margine: non sarebbe stato divertente vedere Trump in NBA 2K19? (Realistico quasi quanto i Clippers campioni NBA)
Ho messo quattro link diversi non perché una notizia che si basa su una serie di tweet e due minuti di comizio può essere interpretabile a seconda dall’orientamento politico del media che la copre (ciao, #AlternativeFacts), ma perché penso sia interessante, in tempi di lancinanti divisioni culturali e sociali, leggere i diversi modi di riportare la stessa notizia e, quindi, l’uso delle parole che si fa nel riportare il tutto.

Quello che mi ha colpito più di questa vicenda è però il tweet di un (eccellente) comunicatore di professione come Ari Fleischer, ex addetto stampa per Bush 43, oggi a capo di un’importante agenzia di comunicazione che annovera, tra le altre, anche organizzazioni sportive.

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Tutte le volte che sport e politica entrano in contatto tra loro, qualcuno tira fuori dal suo cassetto delle frasi di rito il concetto di Stick to Sports.

Dimenticandosi, però, che il rapporto tra sport e politica è totalmente indissolubile: lo sport oggi esiste, come fenomeno di massa globale, grazie alla politica.

È molto difficile trovare un evento sportivo globale, un momento iconico che ha segnato la storia dello sport, in cui è difficile trovare traccia della politica.

Olimpiadi, Mondiali, Campionati Europei, Campionati Nazionali, persino singole partite o derby cittadini.

Quando uno sport dimostra una capacità di aggregare folle, pensieri, opinioni, questo entra sempre in rotta di collisione con la politica, finendo per mescolarne persino il linguaggio (scendere in campo) o gli stessi nomi di partito (Forza Italia).

È successo. Succede. Succederà.

Pertanto è ipocrita non accettare che uno sportivo possa “fare politica”, perché è una naturale conseguenza delle cose.

Il Donald Trump che twitta contro Stephen Curry o arringa la folla contro i giocatori NFL che si inginocchiano durante l’inno americano è magari diverso nella forma, ma nella sostanza non è il primo leader politico che parla o si schiera contro uno sportivo o una lega sportiva, al fine di ridurre tutto ad una narrativa da “noi contro voi”.

Fleischer sottolinea anche come intruding sports into politics is a bad idea for politicians. Sarà una cattiva idea, ma ha tanti precedenti, che spesso funzionano.

Quante volte l’organizzazione di un evento sportivo è stata giustificata a fini politici? Quante volte, tramite lo sport, la politica ha cercato il consenso della gente?

Il rapporto tra politica e sport è probabilmente di “dipendenza di uno dall’altro” inferiore rispetto a quello tra sport e politica, ma la sua stretta connessione è egualmente importante.

Se quindi la politica è libera di servirsi dello sport per creare consenso, opinione, propaganda, perché lo sport non può esprimere le proprie idee politiche?

Lo Sport È Cultura, ricopre un ruolo fondamentale nella tradizione culturale e sociale della stragrande maggioranza delle nazioni che popolano la terra.
Trattarlo come un qualcosa di Serie B, come un taxi di cui servirsi a convenienza ma non pagarlo mai, rimandando il saldo di un ipotetico conto in eterno, è ipocrita.

Finché la politica si servirà dello sport, il diritto degli atleti di esprimere e manifestare le proprie idee e il proprio dissenso (anche in maniera colorita come un Colin Kaepernick o un LeBron James) è ancora più giustificato, sensato e dovuto.

Perché considerando la storia, dire “athletes should stick to sports” significa considerare gli sportivi alla stregua dei gladiatori romani: esseri inferiori il cui unico scopo, la cui unica finalità è l’intrattenimento del popolo.

Qualcosa che aveva poco senso migliaia di anni fa, figurarsi ora.

Karlovy Vary International Film Festival – #coseceche

(nella foto, il caffé della giuria Ecumenica con Ken Loach e Paul Laverty)

Official Selection – Competition

Arrhythmia (Russia; 2017, 116′, International Premiere)

È la storia di una coppia in crisi, che deve fare conciliare un lavoro impegnativo (lui è un paramedico continuamente in movimento con l’ambulanza, lei è dottoressa al Pronto Soccorso) con i problemi del rapporto (l’alcolismo di lui, meravigliosamente interpretato da Aleksandr Yatsenko, meritato vincitore del premio come miglior attore) di coppia.

Il film riesce a catturare l’attenzione con una trama semplice grazie all’ottima regia e ad una recitazione encomiabile che riesce a mettere in scena una storia abbastanza contemporanea.

Voto: 8,5/10

Breaking News (Romania; 2017, 81′, International Premiere)

Alex è un reporter, che davanti a sé ha l’incarico più difficile della sua carriera: preparare un servizio “memoriale” per il suo fidato cameraman, tragicamente morto durante un reportage. In suo aiuto, non senza riluttanza, correrà la giovanissima figlia di lui, ottimamente interpretata da Voica Oltean (menzione speciale della giuria), in un viaggio che porterà Alex stesso a riconsiderare la sua vita e la sua professione.

Con una messa in scena non banale di un lutto familiare, inquadrato dal punto di vista alternativo dell’obiettivo giornalistico, il film si eleva sopra la media dei suoi competitor grazie alla recitazione dei due attori principali, non raggiungendo però livelli alti che potrebbero essere alla portata della storia.

Voto: 6,5/10.

The Cakemaker (Germania, Israele; 2017, 104′, World Premiere)

Dopo la morte del suo amante, Thomas lascia la sua Berlino, e il suo negozio, alla volta di Gerusalemme, la città natia di lui. Nonostante i pregiudizi per le sue origini tedesche riesce a ritagliarsi un lavoro da pasticcere nel bar di proprietà della vedova di lui, Anat. Lei non sospetta che l’innominato dolore che li unisce è l’amore per lo stesso uomo.

Indubbiamente il miglior film visto in competizione, un successo di pubblico (le standing ovation più lunghe degli ultimi 20 anni, a detta del direttore artistico del Festival) e anche all’interno della critica e della sala stampa, snobbato però in fase di premiazione. Un film gentile, che non rinuncia ad essere esplicito nelle tematiche delicate che tratta (non solo l’omosessualità, ma anche l’appartenenza identitaria ad una religione e ad una cultura) riuscendo ad essere alla portata di tutti e comprensibile da tutti. Meraviglioso sotto tutti i punti di vista (eccezionale la recitazione di Tim Kalkhof nei panni di Thomas), grazie al successo in Rep. Ceca sarà distribuito a breve negli Stati Uniti e nell’America Latina. Merita, tanto, tanto, tanto.

Voto: 10/10.

The Line (or. Ciara; Slovacchia, Ucraina; 2017, 108′, World Premiere)

Adam non è solo un duro e risoluto padre di famiglia, ma anche il boss di un cartello impegnato nel contrabbando di sigarette e clandestini attraverso il confine tra Slovacchia e Ucraina. Con l’avvicinarsi dell’ingresso dei primi nell’area Schengen, e il rafforzarsi dei confini, il fallimento di uno dei traffici lo porterà a riconsiderare i suoi stessi limiti.

Un thriller che avanza con un buon ritmo, nonostante forse si soffermi troppo nell’osservare e presentare i vari (tanti) personaggi che fanno parte delle famiglie coinvolte. Con un utilizzo intelligente del black humour, però, la sapiente regia di Peter Bebjak (vincitore del premio come miglior regista) riesce a tenere l’attenzione dello spettatore sulla storia, verso un finale non banale.

Voto: 7,5/10.

Corporate (Francia; 2016, 95′, International Premiere)

La vita della risoluta manager HR Emilie cambia nel momento in cui è testimone del suicidio di uno dei suoi impiegati. L’indagine sul caso diventa, quindi, un test morale per le azioni di una donna che, pur motivata da un’infinita devozione verso il suo lavoro, ha causato dolore per più di un impiegato.

Una superba Celine Sallette è, nettamente, la punta di diamante di un film “strano”, non classicamente francese nell’impostazione tecnica e molto americano nella trama, che avrebbe il potenziale per essere più efficace e d’impatto.

Voto: 5,5/10.

Daha (Turchia; 2017, 115′, World Premiere)

Il quattordicenne Gaza vive, con il padre Ahad, sulla costa del Mar Egeo; vorrebbe proseguire gli studi, ma il genitore lo incentiva ad aiutarlo con il suo lavoro parallelo: il contrabbando di clandestini.

Una storia molto attuale, messa da un punto di vista diverso, quello di un bambino che vorrebbe fuggire dal mondo in cui si ritrova coinvolto. Non è difficile empatizzare con lui, ma la sensazione è quella di un’occasione persa per fare un film “manifesto” di un tema che tocca la nostra quotidianità e attualità da anni ormai.

Voto: 4/10.

Keep the Change (Stati Uniti; 2017, 94′, International Premiere)

L’elegante ma apatico David incontra Sarah, un vulcano di energia, in un gruppo di supporto cui è obbligato da una sentenza. Una volta superati alcuni momenti di conflitto, i due diventano parte di una storia d’amore non banale che non cede, in nessun momento, ai cliché.

Pluripremiato al Tribeca e finanziato dal Sundance, Keep the Change è un film che prova a riscrivere il genere della classica commedia romantica newyorchese, riuscendo a farlo non soltanto grazie a personaggi (e attori) diversi, ma anche tramite una storia che, non rinunciando mai a intrattenere e sensibilizzare, mostra una coppia che non sente mai il bisogno di nascondere le proprie emozioni, neanche in una società riluttante.

Voto: 8,5/10.

Khibula (Georgia; 2017, 98′, World Premiere)

Poco dopo la sua elezione, il primo presidente georgiano democraticamente eletto è costretto ad abdicare per via di un golpe e a fuggire per cercare di evitare la cattura o, peggio, la morte.

Con picchi alti (Hossein Mahjoob nei panni del presidente Zviad Gamsachurdia) e bassi (le altre recitazioni, il ritmo della storia), Khibula assomiglia alla messa in pellicola di una piece teatrale, con l’aggiunta di scenografie mozzafiato che rendono onore al panorama caucasico. Nonostante si tratti di un bio-pic il film non riesce ad assomigliare ad uno, lasciando una sensazione agrodolce a chi lo guarda non conoscendo la storia del personaggio trattato.

Voto: 5/10.

Little Crusader (or. Krizacek; Rep. Ceca/Slovacchia/Italia; 2017, 90′, World Premiere)

Il piccolo Jan, unico discendente del cavaliere Borek, scappa di casa. Il suo ansioso padre si getta immediatamente a cercarlo, ma la disperazione per la ricerca inutile lo debilita lentamente.

Girato tra le campagne sarde e pugliesi, Little Crusader è un film che sarebbe stato appropriato (e molto più di impatto) negli anni ’60, perché degli anni ’60 ha tanto, per non dire tutto: tematica, utilizzo dell’immagine, sceneggiatura, recitazione, struttura. Nel 2017 è un film di cui si apprezzano le caratteristiche tecniche, ma risulta rivolto ad un pubblico troppo selettivo. Premiato come miglior film, in un sussulto di orgoglio nazionale.

Voto: 6/10.

Men Don’t Cry (or. Muskarci ne placu; Bosnia/Slovenia/Croazia; 2017, 98′, World Premiere)

Quando, poco meno di vent’anni dopo la fine delle guerre balcaniche, un gruppo di veterani di guerra si riunisce in un remoto albergo di montagna per alcuni giorni di terapia è difficile immaginare un’atmosfera tranquilla.

Diretto in maniera brillante, il film riesce a far passare in maniera forte l’importanza del perdonare gli altri solo dopo essersi perdonati, e il vasto cast interamente al maschile mette in evidenza picchi alti e meno alti di recitazione. Con un tema non banale, analizzato da una prospettiva abbastanza inedita (andando oltre la convenzione che il tempo lecchi le ferite) forse si poteva fare di più, ma il film è meritatamente tra i migliori della competizione (vincitore della menzione speciale della giuria).

Voto: 7,5/10.

Birds Are Singing in Kigali (or. Ptaki spiewaja w Kigali; Polonia; 2017, 120′, World Premiere)

È il 1994, e l’ornitologa Anna si trova nel mezzo del genocidio in Rwanda. Riesce a salvarsi e a portare con se, in Polonia, la figlia sopravvissuta di un collega, la cui famiglia è stata interamente uccisa. Dopo un difficile adattamento in Europa, le due faranno ritorno in Africa per un viaggio che non è solo una visita ai cari defunti, ma anche una scoperta di loro stesse.

Acclamato alla vigilia come un sicuro vincitore del premio come Miglior Film, alla fine ha portato a casa un ex-aequo come miglior attrice per le due protagoniste, indiscusse, della storia. Protagoniste che sono la vera forza e la calamita dell’attenzione dello spettatore, magnete di cui c’é bisogno vista la trama abbastanza sconnessa e irregolare, che fatica a risolversi in un finale unico, spesso percepito come diviso in più parti.

Voto: 7/10.

Ralang Road (India; 2017, 112′, World Premiere)

Le storie di quattro individui si intrecciano in una labirintica campagna ai piedi dell’Himalaya, fatta di villaggi e microcosmi sociali.

Per distacco il peggiore film del festival. Ha l’ambizioso obiettivo di mettere in scena le difficoltà dell’integrazione sociale e culturale, ma il continuo senso di caos e confusione che il film emana rende quasi impossibile prestare lo stesso livello di attenzione per più di 3 minuti consecutivi. È il primo film “indipendente” del regista, e la sensazione che si ha è quella di un tentativo di showcase di differenti abilità stilistiche, un meltin’ pot che però emerge nella peggiore maniera possibile.

Voto: 1/10.

Official Selection – Documentary

Another News Story (Regno Unito; 2017, 90′, World Premiere)

Un viaggio cronologico all’interno dell’emergenza migranti, con l’obiettivo che però non è posato soltanto sui profughi ma, in maniera abbastanza critica e senza filtri, sui giornalisti e sul loro modo di coprire la storia più importante dei nostri tempi.

L’alternanza dei punti di vista forse è troppo frenetica, finendo quasi con lo stancare lo spettatore, ma in un ora e mezza ben girata e montata il documentario riesce a dare un ritratto coerente ed efficace delle due anime della storia.

Voto: 7,5/10.

A Campaign of Their Own (Svizzera; 2017, 74′, International Premiere)

È la storia, dietro le quinte, della campagna alle primarie democratiche di Bernie Sanders, con l’obiettivo che è interamente centrato su alcuni dei suoi più fedeli supporters.

In una stagione particolarmente florida di docu-film sulle ultime elezioni statunitensi, A Campaign of Their Own si distingue per essere capace di fornire un ritratto completo e non banale di quella fetta di popolazione che ha sostenuto, con rinnovato entusiasmo, la candidatura di Sanders e forse ha deciso le elezioni non trasportando lo stesso entusiasmo sulla candidatura Clinton.

Voto: 7,5/10.

The White World According to Daliborek (or. Svet Podle Daliborka; Rep Ceca/Slovacchia; 2017, 105′, World Premiere)

Dalibor ha 40 anni, un lavoro stabile, ma vive ancora con la madre, gioca alla PlayStation e passa il tempo libero a scrivere canzoni piene di rabbia e girare horror amatoriali. E venera Adolf Hitler.

Un ritratto non banale e molto efficace di un uomo confuso e insicuro che trova rifugio in una ideologia che trasmette forza e sicurezza. Un film che potrebbe essere girato in un qualsiasi paese del mondo occidentale del 2017, un finale che termina senza compromessi.

Voto: 8/10.

Special Events

A Ghost Story (Stati Uniti; 2016, 93′, European Premiere)

Casey Affleck, al suo primo film dopo il Premio Oscar, e Rooney Mara sono le punte di diamante di un film unico nel suo meditare l’approccio all’amore, al lutto, con una presenza eterea che sovrasta il rapporto.

Non il classico film che ci si aspetta da un attore fresco di Premio Oscar, A Ghost Story è un film quasi innovativo nel panorama odierno, che tanto deve alla bravura dei due attori principali (soprattutto la Mara), la cui coerenza e linearità però fatica a convincere del tutto.

Voto: 6/10.

Wind River (Stati Uniti; 2016, 111′)

Cory (Jeremy Renner) è a caccia nella desolata tundra nevosa del Wyoming quando si imbatte nel corpo esanime di una giovane donna nativa americana. L’indagine, guidata dalla debuttante agente FBI Jane, porterà alla luce una storia sconvolgente.

Presentato al Sundance e a Cannes (premio Un Certain Regard come miglior regista a Taylor Sheridan) il film è un ottimo thriller la cui forza è sì dovuta all’inospitale ambiente in cui è ambientata, ma anche alla superba recitazione di Renner in un ruolo pieno di sfaccettature e difficile da mettere in scena. Vincitore, a Karlovy Vary, del Premio del Pubblico.

Voto: 8/10.

Ceremonies Movies

Opening Ceremony: The Big Sick (Stati Uniti; 2017, 124′)

Come altri comici, Kumail sogna di lasciare i piccoli “palchi di provincia” ed esibirsi davanti a platee più numerose. Con un contesto familiare troppo tradizionale e conservatore per lui, e un monologo personale che stenta ad affascinare, la sua vita cambia quando s’innamora di Emily e del suo eccentrico senso dell’umorismo.

Basato sulla storia vera del rapporto tra l’emergente comico Kumail Nanjiani e della moglie Emily Gordon, il film sprizza autenticità e purezza da tutti i pori. Conquista con risate continue e rilassanti anche il più riluttante degli spettatori, e riesce a farlo evitando i cliché della classica storia-d’amore-che-va-contro-i-dogmi-familiari grazie ad una trama non banale e scontata. Pensato per una distribuzione su scala ridotta, il successo degli ultimi mesi ne ha aumentato la diffusione a livello mondiale e potrebbe trasformarlo nella sorpresa dell’anno.

Voto: 9,5/10.

 

Horizons

Fortunata (Italia; 2017, 103′)

Fortunata, parrucchiera della periferia di Roma e madre single devota alla figlia, è determinata a lasciare il suo lavoro a domicilio per aprire il suo salone personale.

Una fantastica interpretazione di Jasmine Trinca in un melodramma ben diretto da Castellitto, un film che ha ben figurato a Cannes e che, per le sue componenti e per il suo messaggio, sembra essere maggiormente rivolto e adatto ad un pubblico internazionale, dove potrebbe trovare maggiori fortune.

Voto: 7,5/10.

The Beguiled (USA; 2017, 94′)

È il 1864 e un soldato ferito trova rifugio in un collegio femminile in Virginia. Durante la convalescenza le attenzioni rivoltegli dalle giovani ospitate dal collegio presto si tramutano in gelosie e rivalità.

Remake dell’omonimo film del 1971 e in competizione a Cannes, dove Sofia Coppola è diventata la seconda donna nella storia a vincere il premio di miglior regista, è un thriller che ti tiene incollato allo schermo grazie alla forza delle eccellenti recitazioni (su tutti, una strepitosa Nicole Kidman) e di una storia che, seppur poco dinamica, non manca di catturare costantemente l’attenzione.

Voto: 8,5/10.

Altre considerazioni

  • Karlovy Vary, come città, è stata una sorpresa: piacevole, piena di colori nonostante alcuni edifici di stampo comunista che stonano con l’architettura neoclassica, piena di gente di tutte le età (non così scontato in una città termale).
  • Festival molto ben organizzato: una macchina ben oliata, che filava senza problemi e riusciva ad avere le sale sempre piene con l’offrire l’ingresso gratuito a chi si posizionava in fila, fuori dalle sale, a reclamare eventuali biglietti venduti (o riservati) ma non reclamati fino a 10 minuti prima delle proiezioni.
  • Dei tre ospiti “hollywoodiani” il più empaticamente coinvolto è stato, senza dubbio, Jeremy Renner, presentatosi in terra ceca nonostante un infortunio sul set e ben a suo agio nel ruolo di intrattenitore.
  • Un’esperienza indimenticabile, da rifare!

 

Poco meno di 2016 Serie TV

Non amo particolarmente i classificoni, cui tendo a preferire molto spesso gli elenchi.

Siccome negli ultimi anni alla desease per la pallacanestro e lo sport in generale ho affiancato quella per le Serie TV, in questo post elencherò quelle che nel 2016 ho visto, ho amato oppure odiato, ho iniziato e non terminato o messo in sospeso (le ore del giorno sono 24 per Jack Bauer, figurarsi per me).

Vedrete anche serie non necessariamente uscite nel 2016, disclaimer.

L’ordine sarà rigorosamente casuale, e per ognuna indicherò, secondo la mia personalissima opinione, “perché va vista” o “perché non va vista”, strong e low points, e altra roba random.

(Non c’é di che)

Nel 2016 ho amato

The Man in the High Castle – Season 2 (Trailer)

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Primo posto nell’elenco dovuto esclusivamente al fatto che è stata l’ultima vista in ordine temporale, ma anche per qualità: la prima stagione mi aveva lasciato con molti punti di domanda, spesso risposti nella seconda. Adesso odio visceralmente Amazon Video perché non so quando (non voglio nemmeno mettere in dubbio il “se”) potrò vedere e godere della S03. Dannati.

Perché va vista: perché migliora in maniera esponenziale la già buona prima stagione, arricchendo la storia e dando quella spinta necessaria all’intero progetto, spinta che può portare ad una terza stagione capolavoro (e verosimilmente conclusiva, vista la vita “breve” che tendono ad avere oggi le Serie TV)

Perché non va vista: perché dopo aver visto il season finale non riuscirete a stare per 11 mesi nell’attesa della terza stagione.

Osservazioni random

  • Se nel corso della prima stagione vi è venuta parecchia curiosità sul “come è questo mondo diviso a metà” (tipo “chi si è preso cosa”), ci saranno un po’ di scene qui e lì utili a togliervi queste curiosità;
  • Il Ministro Tagomi, per distacco, uber alles
  • … con Rufus Sewell (aka John Smith) l’indubbio Most Improved Player della stagione;
  • Alexa Davalos sei una dea, e se evitassi di ripetere in continuazione la faccia da cane bastonato potremmo ammirarti con più piacere;
  • Tzi Ma aka Cheng Zhi aka il secondo miglior villain di 24 (dopo Charles Logan, of course) che fa il generale giapponese è un must see di pregio.

Mozart in the Jungle – Season 3 (Trailer)

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Avete presente la rabbia maturata contro Amazon per il sentimento di vuoto che ti lascia l’attesa della terza stagione di TMITHC? Bene. Moltiplicatela per 1000.

La terza stagione di Mozart in the Jungle, ambientata parzialmente a Venezia con un cast arricchito da Monica Bellucci cantante lirica (…) e da camei raminghi di Christian DeSica (che ho apprezzato pur non apprezzando lui), serve a ricordarci quanto è bello il mondo, quanto 3 ore e mezza (10 episodi x 20 minuti) passino troppo velocemente quando ci si diverte, che Gael Garcia Bernal aka Rodrigo de Souza è uno dei binomi attore-personaggio meglio riuscito (infatti ha vinto meritatamente il Golden Globe a inizio anno), che Lola Kirk è la vicina di casa di cui ci innamoreremmo tutti se fosse la nostra vicina, che la musica è bella e che la vita lo è ancor di più.

Specie quando c’é Mozart in the Jungle.

Perché va vista: perché oltre ai soliti pregi di cui si compone questo gioiello di serie nella terza ci sono delle chicche inedite che la arricchiscono notevolmente.

Perché non va vista: copincolla quanto detto per TMITHC.

Osservazioni random

  • C’é una certa scena molto interessante della Bellucci;
  • Il settimo episodio è una delle cose più belle mai partorite dalla serialità televisiva negli ultimi 5 anni almeno;
  • C’é Baron Davis;
  • Malcom McDowell è un distillato puro di recitazione;
  • C’é Lola Kirk.

The Affair – Season 1-2-3 (in progress) (Trailer prime tre stagioni)

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Con The Affair inizia la lista delle serie che nascono prima del 2016 ma che ho recuperato soltanto nel 2016 perché boh.

Ciò che mi piace tantissimo di The Affair è che nonostante sia una serie sostanzialmente lenta (30 minuti di “focus” a puntata a personaggio non sono proprio rapidi e lisci, specie quando poi l’altro personaggio principale della puntata ripercorre gli stessi “eventi” e mi fermo qui perché altrimenti spoilero troppo) riesce a tenerti per tutti i 60′ dell’episodio attaccato allo schermo con interesse.

Perché va vista: perché anche un episodio “filler” riesce a tenere alta la soglia dell’attenzione, dote rara per una serie TV di questi tempi.

Perché non va vista: perché odierete tutti i personaggi (recitati alla stragrande).

Sherlock – Season 123-(4 in progress)

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In ottima posizione tra le cose di cui mi vergogno di più nel 2016 ci sta, senza alcun dubbio, l’aver aspettato 6 anni prima di aver visto Sherlock.

Perché va vista: devo realmente convincervi?

Perché non va vista: Seriously?

Billions – Season 1 (sta arrivando la 2!)

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Serie in se abbastanza cervellotica e difficile da comprendere, soprattutto per le tematiche trattate (la finanza), si rivela di culto soprattutto per le clamorose performance dei due attori protagonisti, Damien Lewis e Paul Giamatti, artefici di due delle migliori performance attori/personaggi dell’anno. Incredibilmente snobbata sia agli Emmy che ai Golden Globe.

Perché va vista: Damien Lewis e Paul Giamatti

Perché non va vista: perché faticherete a seguire la trama se non avvezzi di temi finanziari

House of Cards – Season 4

house-of-cards-season-4-970-80La quarta è stata la stagione del grande rilancio di House of Cards, dopo l’interlocutoria terza stagione: un colpo di scena dietro l’altro, una recitazione come sempre di altissimo livello ed una storia coerente, accattivante e non troppo assurda.

Grazie Willimon.

Perché va vista: perché è la stagione che ogni fan meritava, e se non siete fan di House of Cards REDIMETEVI.

Perché non va vista: perché è da puro binge-watching, e farete immensamente fatica a non dire “ancora” -e dovrete dirlo ancora per un po’.

The Night Of – Season 1

the-night-of-1349WOW.

HBO at his finest.

È difficile trovare qualcosa che non vada in The Night Of. Il Pilot è praticamente perfetto. Lo sviluppo della storia è ottimo ed essendo una stagione auto-conclusiva (non è stata pensata una seconda stagione) gli sceneggiatori hanno lavorato con il chiaro compito di chiudere il tutto, lasciando però un finale coerente con le dinamiche nate durante gli otto episodi.

La recitazione poi è sublime: sfido a trovare un attore scarso o un personaggio debole, in proporzione al minutaggio “concesso”.

Perché va vista: per gli amanti del genere (crime drama) è praticamente la serie perfetta.

Perché non va vista: se non amate le serie lente, state lontani (sbaglierete).

11.22.63 – Season 1

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Premessa: non ho letto il libro (come non ho -ancora- letto La Svastica sul Sole cui si ispira The Man in the High Castle).

Anche qui siamo davanti ad una serie auto-conclusiva, anche qui siamo davanti a degli sceneggiatori (e che sceneggiatori) che hanno lavorato con il preciso compito di dare una conclusione alla storia, che pertanto scorre via molto bene, mantenendo alte l’interesse e l’attenzione.

A voler essere pillicusi, la recitazione complessiva non è di altissimo livello, ma ho comunque apprezzato molto la serie per l’ottima capacità di messa in scena del periodo storico in cui è ambientata (in una parola, scenografia), ed in particolare delle problematiche che affronta, all’inizio, il giovane professore interpretato da James Franco nel tornare indietro nel tempo di 50 anni.

Perché va vista: se amate il connubio storia/fantascienza e non disdegnate una storia d’azione, siete nel posto giusto.

Perché non va vista: perché ce l’avete ancora con JJ Abrams per Revolution (vi capisco).

Nel 2016 non ho apprezzato tantissimo

2 Broke Girls – Season 1 to 5 (ancora non ho toccato la sesta)

2-broke-girlsIl mio rapporto con 2 Broke Girls è stato altalenante: l’ho iniziata in un periodo in cui non seguivo una serie comedy (estate) e mi ci sono trovato subito; con il progressivo scorrere delle stagioni, però, l’ho seguita più per routine che per effettivo interesse (oltre al fatto che generalmente non abbandono MAI una serie TV, tranne casi particolari su cui mi soffermerò in avanti).

Il problema è che, stagione dopo stagione, questa serie è stata incapace di rinnovarsi e autoalimentarsi, finendo per cadere negli stessi cliché e nelle stesse gag, con quelle poche novità a livello di trama che sono sempre state abbandonate rapidamente, tanto da farmi passare la voglia di vedere la sesta stagione.

P.S. ANCHE MENO RISATE FINTE OK?

Perché va vista: perché, nella linea generale, è una comedy abbastanza unica nel suo genere

Perché non va vista: perché alla lunga stufa, e assai

Deutschland83 – Season 1

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Partita con una premessa interessante (è un genere che nel 2016 ho scoperto di amare molto), la metto qui perché ad un certo punto, oltre ad aver fatto molta fatica a seguirla, ho proprio perso l’interesse. Probabilmente, con un rewatch, esprimerei un giudizio più netto, ma non sono proprio incentivato a riguardarla.

Gomorra – Season 2

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Se la metto qui è, esclusivamente, perché il BANALISSIMO finale, roba che ho avuto la tentazione di distruggere il computer, gli ha fatto perdere una quantità inconsiderevole di punti.

Ed è un peccato, visto che è sicuramente il meglio che è in grado di offrire oggi la fiction/serialità italiana (e per distacco pure), specialmente a livello attoriale, scenografico e musicale. Però quel finale…

Perché va vista: perché oggettivamente è un prodotto di qualità molto alta, oltre a “doverla vedere” per “conoscenza generale”

Perché non va vista: come poterlo dire senza spoilerare? Diciamola così: guardate -attentamente- le prime due stagioni e traete voi le conclusioni.

Marseille – Season 1

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L’unico motivo per cui questa serie è qui e non nella categoria inferiore è l’ottima recitazione di Gerard Depardieu.

Per il resto circolare, non c’é nulla da salvare, ma proprio nulla: musiche orrende, inquadrature da vertigini, recitazione orripilante. Male male male male male male.

Perché va vista: Gerard Depardieu, e poi perché Marsiglia è una bella città.

Perché non va vista: per tutto il resto.

Nel 2016 ho “odiato”

Quantico – Season 1 and 2 (finora)

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Dunque.

  1. Se vi piace Priyanka Chopra (bene), può avere un senso guardarla. Idem se apprezzate quei 40 minuti d’intrattenimento seriale settimanale conditi da personaggi di bell’aspetto (oh, non ne trovi uno/una brutto/a manco a pagare a momenti).

    2. Se vi piacciono le robe “alla 24”, statene lontani, ma proprio a gambe levate. Storia senza senso, plot twist inseriti a casaccio, vuoti di sceneggiatura mostruosi, recitazione media poco convincente, però è un’americanata quindi come ascolti va molto bene (anche in Italia).

Perché la qualità ci ha rotto il cazzo (cit.)

Perché va vista: leggi punto uno.

Perché non va vista: leggi punto due. E poi… sei proprio sicuro di avere 40 minuti a settimana da perdere?

Wayward Pines – Season 2

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Fino alla quarta puntata della prima stagione Wayward Pines era una serie decisamente passabile, finanche godibile, anche per un non amante del genere. Poi un cliffhanger (che non vi spoilererò) ha dato il via ad una serie di plot-hole imbarazzanti, oltre ad aver fatto venire alla luce una serie di robe oggettivamente scarse.

Ed è un peccato, visto che a livello di autorialità siamo messi molto bene.

Non paga di tutto ciò, la Fox ha deciso -a sorpresa- di regalarci un’altra stagione, teoricamente migliore della precedente ma che lascia la stessa sensazione, una volta conclusasi la visione: quella di averti fatto perdere tempo.

Perché va vista: perché vorrebbe essere Twin Peaks.

Perché non va vista: perché non è Twin Peaks, ma manco per scherzo.

Scandal – Season 1 to 3 (e poi allegramente abbandonata)

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Ci ero cascato.

A metà della seconda stagione, più o meno, dentro di me si è fatta strada la sensazione, che oggi ripudio con tutto me stesso, che Scandal fosse una serie fighissima, coinvolgente, accattivante e intrigante.

Tanto che stavo quasi per abbandonare il forte spirito critico con il quale di solito guardo tutte le serie TV che non hanno Kiefer Sutherland nel cast o che non appartengono ai generi che tendenzialmente amo.

Per fortuna non l’ho fatto. Perché Scandal è diventata la terza serie, dopo Lost e Glee, che ho abbandonato prima della sua effettiva conclusione (e che non ho più recuperato).

Non riesco a dire di più, l’ho definitivamente abbandonata a settembre e ho poi rimosso tutti i miei ricordi relativi alle assurde tresche tra Olivia Pope e l’establishment di Washington D.C., alla volubilità dei personaggi, ai casi “assurdi” trattati, alla quasi assenza di buon senso. Madre mia.

Nel 2016 ho iniziato a guardare (too soon to judge)

Designated Survivor

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Tra i sogni da liceale, da amante assoluto di 24, c’é sempre stato quello di vedere Kiefer Sutherland diventare POTUS, pertanto avevo un hype smisurato per Designated Survivor.

I primi 10 episodi (è in pausa fino a marzo) non mi hanno affatto deluso, tutt’altro. Mi piace moltissimo. Seppur siamo lontani dalla serie perfetta (il tema -pur trattato in modo originale- è abbastanza inflazionato), seppur ci sono delle dinamiche strane nell’evoluzione nei personaggi, seppur ci sono sub-plot prevedibili, la serie finora sta riuscendo abbastanza bene nel suo obiettivo: 40 minuti a settimana che ti tengono attaccati alla sedia con una storia comunque intrigante che sa dare “elementi” diversi (o approfondirne vari) ogni settimana.

E poi Sutherland è roba da nomination agli Emmy.

Divorce

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Ho visto i primi tre episodi e sono ancora troppo “indeciso” sull’esprimerne un giudizio, finanche sul continuare a guardarla. Il fatto che siano 25-30 minuti a puntata, però, aiuta moltissimo.

Black Mirror

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Prendere quanto detto per Sherlock e applicarlo anche qui, con le dovute modifiche.

The Young Pope

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A me Sorrentino piace molto, e Il Divo è nel mio Pantheon dei film preferiti dal minuto in cui ne ho visto la prima scena. Premesso che sono al 5° episodio, e che faccio “fatica” a continuarla, ho la sensazione (che sicuramente cambierà una volta finita la stagione) che sarebbe stata ancora più “figa” con un Sorrentino più tendente al Divo che alla Grande Bellezza.

Timeless

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Mi sta piacendo molto (sono al quarto episodio), anche se non riesco a scacciare l’insopportabile sensazione che la fregatura è dietro l’angolo. Per il resto non riesco a dire molto di più.

Westworld

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È oggettivamente un capolavoro. Avendone visti solo i primi due episodi però non voglio dire di più, anche perché è una serie che va compresa per bene e per cui è impossibile trarre molti giudizi affrettati.

Curiositas

Ho letto persone riuscire a scrivere, nello spazio di ore/minuti/secondi, che i “sondaggi sono tutti sbagliati, il sondaggista non fa un lavoro vero” seguito da “i giovani hanno votato la Clinton in massa, come per la Brexit i vecchi fanno i danni”, osservazione basata su sondaggi/exit poll visto che notoriamente il voto è anonimo e segreto.
Quando leggo queste cose penso che veramente vivo in una bolla, che sono un privilegiato, visto che non riesco nemmeno a concepire ragionamenti banali, superficiali e poco approfonditi come questi.
Visto che quando leggo una cosa che cattura l’attenzione la prima cosa cui penso è “perché?”.
Visto che è immensamente frustrante osservare pensatori, seguiti e rispettati, che si beano di possedere l’Assoluta Sapienza quando sono i primi fautori del pensiero vacuo, superficiale e banale, dell’opinione scambiata per informazione, del dileggio gratuito e bieco scambiato per ironia.
Il chiedermi “perché”, la naturale curiosità che possiedo nell’osservare ciò che mi circonda, deriva dalle fortunate esperienze che ho avuto modo di vivere e assimilare nella mia vita. Appartengo, come la stragrande maggioranza delle persone che mi circondano, ad un gruppo sociale privilegiato, perché oggi la curiosità è un privilegio, un dono. Mi rendo conto che questo può risultare un ragionamento snobista, e probabilmente lo è: infatti, per “meritarmi” questo privilegio, ogni giorno cerco di continuare ad osservare il mondo cercando di mettermi nei panni di chi non è come me, di capire il perché e di aprirmi al confronto. 
Cerco, allo stesso modo, di confrontarmi con chi non la pensa come me, perché penso che il confronto sia la base dell’arricchimento personale, confronto che passa anche attraverso il fare notare atteggiamenti stimabili e deprecabili.
Nell’ultimo post (cercherò di essere più continuo nello scrivere) su questo blog ho provato a comprendere cosa avesse significato essere testimoni della Brexit, una delle scelte referendarie che hanno fatto la storia della civiltà occidentale; ho seguito la lunga corsa alla Casa Bianca, vinta ieri da Donald Trump, ma non avendola vissuta di persona non voglio esporre pubblicamente le mie riflessioni.
Posso però provare a riflettere sulla copertura mediatica del fenomeno Trump, una copertura che si è distinta (e alcune testate come il NYT l’hanno pure riconosciuto) per aver vissuto in una bolla di positivismo e sottovalutazione di ciò che stava avvenendo.
Sono rimasto particolarmente colpito, ad esempio, da testate come l’Huffington Post che hanno dileggiato, nei giorni precedenti al voto, statistici come Nate Silver di FiveThirtyEight che -a fronte di media ormai sicuri della vittoria della Clinton- continuavano a ripetere come la competizione elettorale fosse tutt’altro che chiusa.
Nel farlo, l’HuffPost si è basato sul proprio modello di previsioni, che dava la Clinton con oltre il 90% di possibilità di conquistare lo studio ovale (contro il 67% di 538).
Penso alla base di questo confronto vi sia un aspetto che rappresenta la conferma del fatto che la media dei media viva davvero in una bolla: l’ipervalutazione dei sondaggi, degli unici dati “statistici” e “oggettivi” a disposizione degli analisti ed editorialisti in un panorama di campagne elettorali che sempre meno si basano sui contenuti parlando piuttosto di cose terze.
L’ipervalutazione genera mostri, come le presunte battaglie ideologiche tra giovani vs vecchi su remain vs leave.
Come si “combatte” questo atteggiamento?
Informandosi. Confrontandosi. Cercando di capire. Cercando di essere curiosi. Leggendo, con la stessa attenzione, coloro che provano a chiedersi perché e cercando di argomentare, e coloro che si lanciano in ragionamenti retoricamente vacui, non originali, che vanno qui e lì, che danno un colpo al cerchio ed uno alla botte, che dicono quello che i tuoi followers vogliono sentirsi dire, che aggiungono inutili e futili bullet points al discorso (in una parola, Scanzi).
Lo faccio perché è giusto, perché credo che così si possa sviluppare un senso critico efficace, aperto e asettico, che non si lascia influenzare dalle emozioni.
Perché solo attraverso il confronto e il cercare di capire l’altro, di comprendere ciò che ci circonda, si possono evitare divisioni e muri, che poi portano a sbalordirci quando il mondo fuori dalla nostra bolla, dalla nostra classe sociale, ci sbatte in faccia la verità.
In alternativa, se proprio non si ha il tempo o la voglia di essere curiosi, la si può prendere con filosofia, o come Joel Embiid.

History is what makes us.

Assistere alla storia è sempre un qualcosa di particolare.

Sin da quando David Cameron mantenne la promessa di un referendum per l’uscita dall’UE in caso di vittoria alle elezioni 2015 (promessa fatta esclusivamente per unificare temporaneamente un partito spaccato: prendi nota, Italia) e stabilì la data del 23 giugno, ebbi una strana sensazione.

Cameron, dopo aver (giustamente) rispettato una (folle) promessa elettorale, andò a Bruxelles a negoziare ‘regole d’ingaggio’ per la permanenza UK in UE ancor più convenienti delle regole che, fino a ieri (o comunque fino ad effettiva Brexit), regolavano detta permanenza.

Uno status privilegiato: basta conoscere un minimo la storia e la struttura dell’Unione Europea per capire come il Regno Unito abbia trattato l’UE come il gruppo di amici con cui fare bisboccia quando si vuole ma dal quale dileguarsi al momento di pagare il conto del bar.

La promessa di referendum, unita ad un’opposizione laburista quantomeno flebile, consegnò poco più di 12 mesi fa ai Conservatori una maggioranza comoda, confortevole, utile per governare il paese senza particolari difficoltà fino al 2020.

La scommessa di Cameron aveva pagato. Ma quando scommetti una volta, è difficile smettere.

Motivo per cui Dodgy Dave decise di giocare su un altro tavolo, negoziando appunto delle nuove regole d’ingaggio, ovviamente (perché a Bruxelles non sono idioti) condizionate al voto pro-Remain.

A quel punto Cameron, il leader naturale e legittimato di un partito Conservatore ed Euroscettico (un controsenso) diventa il più accanito sostenitore del Remain. Consapevole che al Remain, a quel punto, si legava il suo destino politico.

Personalmente mi bastò, un paio di mesi fa, assistere ai primi discorsi di “apertura della campagna elettorale” per capire che il Remain non avrebbe avuto una chance.

Questo perché Cameron ha personalizzato su di se la campagna elettorale, approfittando di un partito laburista diviso internamente sulla leadership di Corbyn (e, in seguito, dall’agrodolce risultato delle amministrative di inizio maggio), lasciando campo fertile ai suoi oppositori naturali (l’UKIP di Farage) e meno naturali (Boris Johnson ed i Conservatori pro-Leave).

Cameron ha condotto una campagna elettorale disastrosa perché non poteva non condurla in tale maniera essendo l’intero referendum il frutto di due scommesse irresponsabili.

Ed è anche per questo motivo che i punti più bassi di questa brutta campagna elettorale (su tutti il brutale omicidio di Jo Cox) non hanno modificato, nonostante i fiumi d’inchiostro spesi dai tanti analisti da salotto che han firmato fior di editoriali per convincerci del contrario, le intenzioni di voto delle persone.

La maggioranza dei britannici ha votato per il Leave perché la maggioranza dei britannici non ha idea di che cosa sia l’Unione Europea: Farage, Johnson, i tanti quotidiani pro-Brexit hanno avuto vita facilissima nel convincere quelle fasce della popolazione verso cui i miei coetanei oggi si scagliano perché l’Unione Europea non è stata capace di farsi capire.

Ma attenzione: non possiamo soltanto dare la colpa a Bruxelles, incapace di “presentarsi”.

Le “colpe” bisogna darle, in maniera responsabile, anche a chi informa ed educa la gente.

È difficile, persino per un pro-UE, definire e spiegare bene a chi non capisce cosa sia l’Unione Europea.

La difficoltà nel capire un argomento tanto complesso poi può anche portare ad ore ed ore di analisi giornalistiche vacue e futili dove ci si scanna per opinion poll dal valore pari a zero, sondaggi per fasce d’età prese come verità assoluta, punti del dibattito televisivo (italiano, e qui ci tengo a precisare. Ho passato 6 ore sintonizzato su Sky News tra ieri sera e stanotte, risultati e commenti analitici secchi, nessuno che litigava. Del dibattito italiano mi rimarrà in mente Brunetta che litiga con Vespa e Monti che litiga con Tremonti) che ti invogliano a spegnere la televisione.

E poi ci stupiamo che la gente non capisce? Ci incazziamo con chi è “vecchio e poco istruito” perché decide per noi a maggioranza?

Rispetto chi lo fa, ma non sono d’accordo.

Incazziamoci se sappiamo di aver dato del nostro meglio, informando e confrontandoci.

È snob e anche superficiale ridurre il risultato di un voto ad una differenza di classe -tutta da dimostrare, tra l’altro: il voto è segreto ed i flussi di voto sono una cosa che ha valore da dimostrare- e può essere finanche offensivo.

Quando una parte vince sull’altra, specie su un referendum da “Yes” o “No”, è perché ha saputo fare valere le sue ragioni in maniera più efficace, che ci piaccia o no.

Stamattina Farage è stato facilmente e teneramente (nel senso che era teneramente imbarazzante osservarlo inciampare sulla questione) sbugiardato sui £350milioni “risparmiati” (virgolette necessarie) grazie all’uscita dall’UE da destinare al NHS (il servizio sanitario nazionale). Un baluardo della campagna Leave che, a urne chiuse, si è rivelato nonsense agli occhi di tutti.

A urne chiuse.

Bravi tutti.

Chiudo su una riflessione su Londra.

Oggi c’é stato chi mi ha chiesto “che aria tirava”.

Appena sveglio, alle 8, e appena letto su twitter delle dimissioni di Cameron mi sono messo la prima (brutta) camicia che ho trovato in stanza e sono corso a prendere la metro alla volta dell’area di Westminster.

Davanti a Downing Street ho visto gente di tutti i tipi: sostenitori del Leave, del Remain, turisti, curiosi, cittadini europei interessati. Pittori improbabili, gente avvolta da bandiere.

Tutti avevano in comune, oltre al desiderio di volere assistere alla storia, uno straordinario, incredibile e per certi versi inquietante senso di tranquillità. Interiore ed esteriore.

Fermo la mia caratterizzazione per non scadere in un’eccessiva retorica, ma a differenza di alcuni miei amici e coetanei rabbuiati e impauriti dal futuro, io continuo ad essere tranquillo e ad avere fiducia in Londra.

Continuo ad averla quando passo ore delle mie giornate a fare job seeking, perché Londra mi ha accolto e, nonostante dovrò lasciarla (temporaneamente?) martedì sera, so che mi accoglierà sempre.

Perché è la città dove a tutti vengono date chances (sì, plurale), e dove tutti possono dimostrare di valere (e di valerla).

E questo non dipende e non sarà modificato da nessun Leave.

Un (av)Ventura di ottimismo smodato

“Per la Nazionale azzurra che verrà Carlo Tavecchio ha scelto non un nome ad effetto ma un maestro di pallone, che sa valorizzare i giovani. Una decisione in controtendenza se si considerano gli ultimi allenatori: Sacchi, Trapattoni, Lippi e lo stesso Conte.”

Prendo l’incipit del pezzo del Fatto Quotidiano per riassumere, in maniera sintetica, ciò che si dice di Giampiero Ventura, futuro CT della Nazionale Italiana, l’uomo cui saranno affidate le speranze di qualificazione a Russia 2018 ed evitare un’esclusione, la prima in 60 anni (da Svezia 1958), qualcosa che rappresenterebbe l’anno zero del calcio italiano (che già viene da due eliminazioni ai gironi in Sudafrica e Brasile).

Ventura, che nelle ultime 5 stagioni è stato l’allenatore del rilancio del Torino a livelli medio-alti, è considerabile come il classico “mister di provincia”: gavetta lunghissima (ha allenato ovunque, dall’Interregionale alla A), esoneri e subentri, palmares fatto esclusivamente da promozioni, ridottissima esperienza internazionale.

Non nascondo di essere assolutamente contrario alla scelta di Ventura come CT, nonostante questa sia stata agevolata da una concorrenza quantomeno flebile (Montella sarebbe stato, specie alla luce di questa stagione, ancor più inspiegabile). Ma voglio cercare di dimostrare la mia contrarietà in maniera oggettiva, qualcosa di raro nel paese dei “60 milioni di CT”. Non perché credo di essere competente (anzi), ma perché mi piace una dimensione in cui gli avvenimenti sportivi si analizzano in maniera asettica, lasciando le pomposità retoriche a ciò che è extra-cronaca.

Carlo Tavecchio, presidente FIGC, ha definito Ventura un Maestro di Calcio.

Nel calcio la definizione Maestro è utilizzata spesso per un futuro ‘collega’ di Ventura: il quasi coetaneo (è nato 10 mesi prima) Oscar Washington Tabarez, che il 29 marzo scorso è diventato il CT più longevo della storia del calcio mondiale.

Tabarez è chiamato Maestro anche (e soprattutto) per la sua precedente esperienza di insegnante di scuola, affiancata all’attività di allenatore nei primissimi anni della sua carriera.

In Ventura si possono riscontrare alcune affinità con l’ex allenatore di Cagliari, Milan e Boca Juniors: entrambi nascono come calciatori (Tabarez era un terzino, Ventura un centrocampista), entrambi abbandonano la carriera agonistica dopo risultati modesti e entrambi iniziano ad allenare nello stesso anno: il 1980.

Lì i percorsi differiscono: nel suo primo decennio da allenatore Tabarez può vantare addirittura una Copa Libertadores (Peñarol 1987, l’ultima conquistata da un club uruguayo), un’esperienza all’estero (Deportivo Cali) e l’aver allenato ad un Mondiale (Italia 1990); Ventura, invece, fa più fatica ad emergere.

Dopo 5 anni divisi fra i dilettanti liguri, la prima ‘occasione’ arriva prima con lo Spezia, sulla soglia dei 40 anni, dove dura 12 partite (con una sola vittoria), e poi con la Centese, dove disputa un biennio in C1 culminato con una retrocessione.

Il suo debutto in B avviene a 46 anni, quando viene chiamato da Maurizio Zamparini sulla panchina del Venezia. Come spesso accade con Mr Z, il primo anno di B del nostro non è intero, in quanto si alterna con Luigi Maifredi e Gabriele Geretto ad un anonimo 9° posto, arricchito dagli 11 gol di un giovanissimo Christian Vieri.

Venezia non è un’esperienza fortunata, ma è il trampolino di lancio.

Seguono, infatti, una doppia promozione, in due anni, dalla C1 alla A col Lecce e un’altra promozione in A col Cagliari, col quale disputa il suo primo campionato in massima serie a 50 anni, nel 1998-1999. I sardi finirono tredicesimi, e Ventura dovrà aspettare il 2010 per disputare un’altra stagione completa in serie A, con quel Bari ereditato da Antonio Conte di cui si è tanto discusso negli ultimi giorni.

In mezzo, tanti subentri (Udinese, Messina, Verona), tanta serie B (Sampdoria, Cagliari e Pisa), e la promozione in B mancata col Napoli nel primo anno della gestione De Laurentiis.

A Bari Ventura registra un onorevole 10° posto ed una amara retrocessione l’anno dopo, preludio al quinquennio granata in cui raggiungerà un 7° posto, il suo career best in A, valido per l’unica qualificazione alle Coppe Europee della sua carriera (porterà il Torino fino agli ottavi di finale, vincendo 8 partite sulle 14 giocate in Europa) grazie anche alla mancata licenza Uefa al Parma, preludio al fallimento ducale.

Le 14 partite di quell’Europa League 2014-15 rappresentano l’unica esperienza internazionale del nuovo CT azzurro, un campione poco identificativo.

Tavecchio ha definito Ventura come uno che ha insegnato a tanti allenatori le sue regole innovative (affermazione tirata nel mezzo, difficilmente verificabile nei fatti reali) e come uno che ha lanciato un sacco di giocatori da nazionale.

Andiamo a vedere chi sono i giocatori “lanciati” da Ventura.

Possiamo considerare come primo esempio, pur forzato, quello di Vieri, avuto ad intermittenza nell’anno di Venezia; anche se è decisamente una forzatura definire Ventura come l’allenatore che ha lanciato Vieri nel calcio italiano.

Considerando le due esperienze più felici di Cagliari e Lecce, l’unico giocatore avuto da Ventura che ha poi avuto un’esperienza in Nazionale è stato Bernardo Corradi. Che, nell’anno della promozione in A, vide il campo per ben due volte.

Nessuna traccia di giocatori da Nazionale A nemmeno nella rosa avuta da Ventura alla Samp, quando invece all’Udinese ebbe sì due futuri nazionali come De Sanctis e Iaquinta, che però debuttarono in azzurro anni dopo essere stati alle dipendenze del mister ligure.

Il primo giocatore ad aver debuttato in Nazionale entro 12 mesi dall’aver avuto Ventura come allenatore è Mauro Esposito, in una stagione dove però Ventura fu esonerato alla sedicesima giornata.

A Napoli Ventura allenò un giovane Ignazio Abate, che però debutterà in Nazionale sei anni dopo.

Nulla da segnalare a Verona, mentre a Pisa nasce la liason con Alessio Cerci, che Ventura ha indicato come uno dei suoi 11 “potenziali azzurri” in un’intervista fatta a marzo con Sky. Cerci debutterà si in Nazionale grazie a Ventura, ma a 26 anni.

Passando al Bari, sappiamo tutto della coppia Bonucci-Ranocchia: entrambi esordirono in nazionale grazie alla bella stagione giocata in Puglia alle dipendenze di Ventura, prima di passare rispettivamente a Juventus e Inter.

Venendo poi al Torino, i nomi ci sono stati ripetuti spesso di recente: Ogbonna, Immobile, Darmian fino ai più recenti Baselli, Benassi e Zappacosta.

Escludendo Bonucci e Ranocchia, che sono stati allenati da Ventura per una sola stagione, sommando le presenze in Nazionale di Esposito, Cerci, Ogbonna, Immobile, Darmian, Baselli, Benassi e Zappacosta si arriva a 54 partite. Meno delle 57 disputate, ad oggi, dal solo Bonucci. Ben lontane dal rappresentare un “solido apporto storico alla Nazionale Italiana”.

Ciò che ho letto e sentito poco in giro è il fatto che Ventura, negli anni, abbia costruito le sue fortune di provincia nell’essere un allenatore di campo, dedito al lavoro quotidiano e costante nel costruire le squadre, plasmare uno stile di gioco (prevalentemente offensivo) e sviluppare la crescita dei giovani.

Qualcosa che, come abbiamo imparato dall’esperienza di Antonio Conte e dalle sue continue frizioni con gli altri allenatori di Serie A, è lontanissimo dal lavoro e dal modus operandi di un allenatore della Nazionale.

Non ho dubbi nel dire che Ventura, nelle sessioni di lavoro che svolgerà a Coverciano nei prossimi due anni, farà un ottimo lavoro e sarà in grado di dare un imprinting ai giocatori da lui selezionati.

Ho molti dubbi nelle capacità di Ventura come “lavoratore a distanza” e come selezionatore nel preparare partite particolari -considerando il girone di qualificazione che ci aspetta queste “partite” saranno numerosissime- dove non si può sbagliare.

La scelta di un CT come Ventura ha pochissimo senso nel biennio mondiale, dove non puoi permetterti di creare un progetto da zero, ancor di più quando hai un girone che quasi sicuramente ti costringerà a giocarti la qualificazione ad un playoff andata/ritorno.

Avrebbe avuto molto più senso puntare su una tipologia di allenatore stile Ventura due anni fa: qualificarsi ad un Europeo a 24 squadre è molto più facile ed in ogni caso andremo in Francia consapevoli che un quarto di finale raggiunto sarebbe un risultato onorevole.

L’Italia ha perso due anni con Conte che nel breve periodo ha lavorato molto bene, ma ha costruito zero sul medio/lungo e che porterà una sua squadra in Francia, di pretoriani e di scelte fatte per convinzioni tecnico/tattiche.

Ventura sarà un CT che costerà poco, molto meno di quanto sarebbe costato un selezionatore più blasonato (perché non si considera mai l’idea di un allenatore straniero?) e più di sicuro rendimento e che in ogni caso difficilmente sarà l’allenatore della Nazionale dopo il 2018 (quando arriveremo al decimo CT in 21 anni), vuoi per età (avrà 70 anni e le motivazioni saranno tutte da verificare) e vuoi per risultati che potrebbero non essere raggiunti (motivo per cui questa scelta potrebbe anche essere un ‘alibi’ perfetto).

Una scelta coraggiosa, anche alla luce del fatto che Tavecchio potrebbe non festeggiare il prossimo Natale da presidente FIGC, sarebbe stata quella di un allenatore poco sexy (abbiamo spesso assistito, nell’ultima stagione, a ripetuti peana celebrativi, quasi anticipati, sul #TorinodegliItalianidiVentura), magari straniero, con il quale promuovere un progetto di 6 anni che possa vederci realmente competitivi a Qatar 2022, accettando il rischio di non qualificarsi in Russia.

Invece si temporeggia, si fa una scelta di retoricadi manifesto (se Ranieri non avesse stupito il mondo col Leicester, Ventura sarebbe stata una buona idea per i media?) dimostrando come al calcio italiano non importa nulla il pensare sul medio/lungo periodo.

Tanto, poi, si può sempre ricorrere al #TroppiStranieri come giustificazione e panacea di tutti i mali.

What does it mean dreaming to become a Sport Journalist in 2016?

Academic Essay written as Final Assignment for the Sports Journalism Module, University of Westminster.

It is often said that Journalism is a vocation.

Considering Sports Media as a prominent form of popular culture (Hutchins & Rowe, 2012), understandable if we think of Sports itself as one of the greatest passions of the twentieth century (Boyle & Haynes, 2009), it can be argued that Sports Journalism is a vocation as well.

The dream of being a Sports Journalist has always accompanied me through my adolescence, and still is the fuel that feeds my engine.

But what does it mean dreaming to become a Sports Journalist in 2016?

Attending the Sports Journalism Module helped me to broaden my expertise and my ability to write on different sports and produce various types of reports and writings. The Course has been helpful in terms of working under pressure, simulating a real newsroom: something that not much Sports-Journalists-hopeful have the chance to experience.

Learning a career is a process made of practice.

Practice is essential, vital and fundamental. Especially if being on the path to be a Sports Journalist. And during the 12 weekly appointment every Wednesday night in Marylebone Road, I have had the chance to do exactly that.

But is practice (and practice and practice) the best way to drive yourself into the world of Sports Journalism?

It could be argued that the Media Revolution has changed the ‘games rules’.

Bull (2008) wonders if in a world of 24-hour Sports Coverage we have lost all judgement of what is actually worth reporting, and he definitely may be right: does the Social Media ‘boom’ change Journalism’s Gatekeeping process and its dogma?

Are we able today to cover Sports in the best possible way, without being affected by personal judgements or feelings? How does Social Media help us in order to pursue this goal?

And given all this assumption, what does it mean, for a young adult, dreaming to become a Sports Journalist today?

Someone dreaming that job should be prepared to face several dynamic and continuous changes while being inside a fast-paced world.

I will now consider a recent example on what is Sports Journalism to me.

Weeks ago, Juventus was preparing to face Bayern Munich in the 2nd leg of UEFA Champions League Round of 16.

A few hours before the match, Bayern’s Twitter account posted this goliardic image, joking about Juve’s motto #finoallafine (literally, ‘till the end) and transforming it into “Qui è la fine” (This is the end).

It seemed like an average pun, often portrayed between Sports Teams on Social Networks nowadays.

Neuer1

Instead of simple fun and joking, the rail tracks in the Photoshop image were confused with the ones leading to Auschwitz Nazi Lager.

Although it took only a few minutes for a Twitter user to find out the real origin of those rail tracks, several Italian journalists embraced the controversy by tweeting or writing about the scandalous Bayern’s tweet.

It was easy to understand how Bayern’s Tweet was a simple excuse, for many, to express their anger against the opponent, in a game that was crucial for Italian Football.

Juventus eventually lost the match in Extra Time, leaving Italy without any teams in European Competitions Quarterfinals for the first time since 2001, marking another low chapter in Italy’s Football recent history.

What this story taught me is the fine line between covering and cheering.

Something that is not remembered as it should be while today’s journalists cover Sports Events or News.

Would this huge number of Italian Journalists complained about Bayern’s pun if it was not aimed to an Italian team? If it was directed, for example, to an English or French one?

I don’t think so.

The advent of Social Networks like Twitter have opened new and direct forms of communications between Sports Club, Fans and Journalists (Price, Farrington, & Hall, 2013), and those changes have had a significant impact on the accessibility of any potential news and facts.

In my opinion, those changes could have a negative side.

Sports Journalists, today, are often too sensitive and subjected to be influenced by their personal opinions and passions about (or against) particular teams.

This kind of behaviour is not only damaging the reputation of those journalists, but also the image of journalism itself.

Where opinions overshadow facts there is no Journalism, there are no facts.

Studying Sports Journalism in the ‘old fashioned way’ could be a remedy to this drift.

Learning the basics and develop a standard and aseptic style should avoid a derailment in journalistic principles.

With this in mind, the focus can move to analysing what could be the best possible use of these new technologies and platforms.

Thanks to Twitter, Facebook and Blogs, anyone could launch a story, anyone could spark a rumour; fact checking is often overlooked in order not to lose time.

Sometimes the use of those platforms by athletes themselves bypasses the Gatekeeping function of journalists, publicists and even sports officials. (Hutchins B. , 2011)

There are also new examples, like The Players’ Tribune (a website launched by MLB star Derek Jeter that is managed and written entirely by athletes), where the true protagonists of the Sports competitions can become also the next Reporters (McCue, 2014), posing themselves as competitor also in the Journalistic Field.

For example, The Players’ Tribune became an Internet sensation when NBA star Kobe Bryant decided to announce his retirement from basketball in a letter published on the website, or when another NBA star in Kevin Durant worked as a photographer, for the same site, at Superbowl 50 earlier this year.

PlayersTribune

Despite the fact that these examples surely give those platforms an extra-kick and a particular appeal compared to traditional Journalism Portals.

So, from the ‘traditional side’, the value added can be found into the deep analysis and the extended research.

The Grantland Example, referring to the website once founded by HBO’s Bill Simmons, has generated a large longform base, with several bloggers and young journalists dedicated to write these long, detailed and slow-paced pieces that, even in an Era of a short attention span, are drawing more and more audience.

But longform can’t be the solution to all the problems.

Emerging sports journalists, in order to succeed today, needs to embrace those changed by adapting in the best possible way, but without changing the nature of Gatekeeping and the true essence of what being a journalist really is.

So it may be argued that Sports Journalism is going all the way towards an era of Convergent Sports Journalism, defined by Hutchins and Rowe (2012) as a mode that requires journalists to produce and reuse stories for several media platforms at the same time.

This could lead to a case where these several work demands led to a ‘creative cannibalisation’ of the content (Curran, 2011), where professional journalists and general media ‘stakeholders’ are producing heated arguments over the rightful ownership of these new forms of intellectual property (Hutchins and Rowe, 2012).

While attending the module, I have tried to rethink my passion for Sports Journalism and channel it into a critical analysis of its future and the profiles I currently follow with interest and curiosity.

Changing my style and adapting to a different atmosphere and environment has been the challenge of a lifetime.

As my lecturer often joked about, Italians often have a too-rhetoric and language-dense writing style.

For me, this is something totally distant from what is supposed to be any kind of Journalism in 2016.

People don’t read.

And when they do, they usually read for a short period of time with a passive attention span.

I still believe that good journalism will have an audience if it will be able to adapt to this changes and will be ‘on board’ with the new world.

Even if most people read less than in the past, they still rely on Journalists as people to tell them the truth and, especially, why what happened has happened.

In building my dream and learning a future career I have always tried to look up to the best examples in Sports Journalism.

I consider myself lucky when I think that I have had the luck to meet, interview, and sometimes get to know, my ‘inspiring models’.

I will start with the duo that represent, for my generation, the Basketball coverage in Italy.

Flavio Tranquillo and Federico Buffa for almost 20 years have been the principal voices of Basketball in Italian Television.

A faithful generation not only of fans, but also of aspiring journalists, have studied their work and learnt, almost by heart, their catchphrases and their style.

I think that an aspiring journalist can properly define someone as ‘Role Model’ if he had the chance to know him better and confront him on what does it mean to be a Sports Journalist.

Their work is considered remarkable also because they were able to do in the right way, without being conditioned by the negative stuff I have mentioned earlier in this piece.

In an interview I’ve recently done with Tranquillo, he states how a continuous interaction with Social Media Followers for a journalist is “important, but is not news, and it is not to be confused with an Editorial Line” (Interview, 2015).

I agree with him on this point, and we both concur that “Social Media are important and they’re one possible source. But they’re not the only one. And they should be subjected to Fact-Checking.” (Interview, 2015)

Mu Lin (2013) says, speaking about the previously mentioned Gatekeeping process, that “Web and mobile platforms demand us to adopt a platform-free mind-set for an all-inclusive production approach”, by creating the digital contents first, and then distributing them via appropriate platforms.

In conclusion, being a Sports Journalist in 2016 means being able to take on Mu Lin’s definition and make it work, in harmony, with the other examples previously mentioned, and always aim to the best.

Even if our audience is composed by 1, or 100, or 100,000 viewers, the Journalist’s job is to be always able to explain what happens (or happened, or will happen) to who’s reading or listening or watching. And to do it in the best possible way.

In an interview I made for this module with my friend Dario Vismara, an esteemed Basketball Journalist in Italy, he states (on the future of Sports Journalism) that “There’s a reason why Grantland has closed. Social Media created a ‘Numbers Hunting’, overshadowing the quality. Future is complicated, because people don’t read a lot, either about sport or on internet. We should then intercept audience with new content, by video or Podcast.

That is why, in my opinion, the truly successful Sports Journalists of 2016 (and 2026, and 2036) are and will be the most motivated one.

Because Sports Journalism is truly a Vocation.

Reference List

Bull, A. (2008, May 13). Bland, decrepit, unrelenting: the depressing state of our sports news culture. The Guardian.

Boyle, R., & Haynes, R. (2009). Power Play: Sport, the Media and Popular Culture. Edinbrugh: Edinbrugh University Press.

Curran, J. (2011). Media and Democracy. London: Routledge.

Hutchins, B. (2011). The acceleration of Media Sport Culture. Information, Communication & Society , 14 (2), 237-257.

Hutchins, B., & Rowe, D. (2012). Sports Beyond Television. London: Routledge.

Lin, M. (2013). A primer for journalism students: What is digital-first strategy? Accessed on March 23, 2016 from MulinBlog: A Digital Communication Blog: http://www.mulinblog.com/what-is-digital-first-media-a-primer-for-journalism-students/

McCue, M. (2014, October 9). Will The Future Of Sports Reporting Include Sports Reporters? From Fast Company: http://www.fastcompany.com/3036764/innovation-agents/will-the-future-of-sports-reporting-include-sports-reporters

Price, J., Farrington, N., & Hall, L. (2013). Changing the Game? The impact of Twitter on relationships between football clubs, supporters and sports media. Soccer&Society , 14 (4), 446-461.

Saturday we will witness the Greatest Match in Basketball History

Op-Ed written as an Assignment for my University of Westminster Sports Journalism Module. Written on March 16th, 2016.

When we cover sports, we are always fascinated by the ‘glorification’ of the past.

Maradona is better than Messi, Jordan is better than Bryant or Schumacher is better than Hamilton.

The 2015-16 edition of the NBA, the most spectacular Sport League in the World, is teaching us that New could be better.

Saturday night will mark Round Two of the ‘Warriors – Spurs Showdown’, a matchup that is rewriting several statistical and history books.

Basketball fans are starting to compare this duel to others that have made sports history.

Like England – Germany in Football or New Zealand – Australia in Rugby or Federer – Nadal in Tennis.

This new edition of the ‘NBA Saturday Primetime’ between Golden State and San Antonio will mark the Greatest Regular Season Match in NBA History.

Warriors and Spurs this season have won, combined, 88% of the games they have played.

Something that has no equal in the League’s 69 years of existence.

San Antonio is the ‘Tradition’.

A ‘Tradition’ that, as of today, is unbeaten in its own court.

No one, before them, had won their first 34 Home games in a NBA Season.

They have dominated these last two decades, pursuing perfection both on and off-the-court.

Since their Franchise Player, Tim Duncan, joined the team in 1997, they have the best winning percentage in all the four American major sports (Basketball, American Football, Hockey and Baseball).

Duncan, in these years, has led the winningest Trio in NBA History.

An International one: he is from the Virgin Islands, and his sidekicks have been the Argentinian Manu Ginobili and the French Tony Parker.

Tim, Manu and Tony have won together almost 700 NBA Games.

Better than any Trio in League History.

Where there is tradition, often there is continuity: since December 1996 the Spurs are led by Gregg Popovich, one of the two coaches in NBA History to have won more than 1,000 games with the same Franchise.

The Spurs Legacy is something that goes beyond simple matches: today’s NBA is filled by Coaches or Managers that somewhere have written, in their CVs, ‘Employer: San Antonio Spurs’.

That is because the Texan Franchise is able to plan and build with an incredible cleverness.

An example of that is Spurs’ next Franchise Player.

Despite being only in his 5th season in the Association, Kawhi Leonard is already one of the three men to have won both the Defensive Player of the Year Award and NBA Finals MVP.

Leonard is in an elite company: the other two in that category are Hall of Famer Hakeem Olajuwon and Michael Jordan, the Greatest Player of All Time.

Tim, Manu, Tony, Gregg and Kawhi, together with other great Spurs players in multiple-time All Star LaMarcus Aldridge, veterans David West and Boris Diaw or key players as Danny Green and Patty Mills,  will approach Saturday’s game with one desire: Revenge.

In their only matchup so far in the season (Spurs and Warriors will meet twice in the Regular Season final week in mid-April), Golden State have forced their opponent to their worst loss of the season with a final score of 120-88 that leaves no objections.

This is one of the reasons why, after Leicester City in Football, the Golden State Warriors are now the best story in Sports World.

Because they are simply changing the whole concept of Basketball as we know it.

Today the Dubs can exhibit the best start in NBA history after the first 67 games, with 61 wins.

It may seem redundant, but the superlative has been used quite often in this 2015-16 season for the Californian team.

Best Season Start in NBA History, Best Record at the All Star Break, Best Record for a debutant coach in his first two seasons.

And, last but not least, the Best Player in the NBA today in Stephen Curry.

Many people thought that, after an MVP Season last year, he had reached his peak.

But as we are now seeing, the sky is the Limit for Dell Curry’s son.

As of today, Warriors’ iconic guard has converted 330 3-Pointers. Before Stephen Curry, no player in NBA History had scored more than 270 long-distance shots in a Full Season.

But Steph’s historical run is not only made by his shooting ability.

As of today, Curry is having the best ‘after-MVP’ Season in NBA History. His Player Efficiency Rating, a Statistic that measures the successful impact of a player in a team, has no comparison in Basketball’s History.

No Basketball Team is great for having just one legendary player.

For that reason, Warriors’ true success is explained by the so-called Splash Brothers. Klay Thompson, son of former NBA Champion Mychal, is the perfect ‘Robin’ to Bat-Curry, or Dr Watson to Stephen Holmes.

His constant shooting and scoring effort played a huge role in making Golden State’s backcourt into one of the Greatest in NBA History.

As we have seen before, NBA’s Legacy is made by ‘Trios’, or Big Three.

The third, in Warriors’ case, is Draymond Green.

First time All Star this year, Golden State’s big man is the best forward in all NBA for assists, and his efficiency and versatility makes him a hard matchup for the other 29 League teams.

Golden State is on the run for beating the NBA All-Time Winning Record for a Season, established by Michael Jordan’s Chicago Bulls with 72 wins (and 10 losses) exactly 20 years ago. San Antonio is on the pace too for a 70-wins season.

Task will be harder than the usual for the Dubs, due to the injury to their reigning Finals MVP in Andre Iguodala, the perfect veteran player.

If you’re wondering if there has ever been an NBA Season with two teams winning at least 70 games, the answer is simple: Never.

Round one of this incredible matchup, played in January, marked historical television viewing numbers in the US.

Round two, at this stage of the season, with these records on the line and the current teams form, could turn out into the Greatest Basketball Game Ever Played in History.