“Stick to Sports”

NY Times: Trump Blasts Warriors’ Curry. LeBron James’s Retort: ‘U Bum.’

Wash Post: Trump turns sports into a political battleground with comments on NFL and Steph Curry

Fox News: Trump vs. pro sports: President finds new target in America First agenda

Breitbart: Donald Trump Cancels NBA Championship Invitation to Steph Curry and the Warriors

I quattro link precedenti, diversissimi fra loro, parlano dello stesso fatto di cronaca: i Golden State Warriors, campioni NBA uscenti, non andranno in visita alla Casa Bianca durante la loro annuale trasferta nella capitale statunitense, rompendo una tradizione che vede le franchigie campioni uscenti nei principali sport statunitensi incontrare il Presidente degli Stati Uniti.

A margine: non sarebbe stato divertente vedere Trump in NBA 2K19? (Realistico quasi quanto i Clippers campioni NBA)
Ho messo quattro link diversi non perché una notizia che si basa su una serie di tweet e due minuti di comizio può essere interpretabile a seconda dall’orientamento politico del media che la copre (ciao, #AlternativeFacts), ma perché penso sia interessante, in tempi di lancinanti divisioni culturali e sociali, leggere i diversi modi di riportare la stessa notizia e, quindi, l’uso delle parole che si fa nel riportare il tutto.

Quello che mi ha colpito più di questa vicenda è però il tweet di un (eccellente) comunicatore di professione come Ari Fleischer, ex addetto stampa per Bush 43, oggi a capo di un’importante agenzia di comunicazione che annovera, tra le altre, anche organizzazioni sportive.

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Tutte le volte che sport e politica entrano in contatto tra loro, qualcuno tira fuori dal suo cassetto delle frasi di rito il concetto di Stick to Sports.

Dimenticandosi, però, che il rapporto tra sport e politica è totalmente indissolubile: lo sport oggi esiste, come fenomeno di massa globale, grazie alla politica.

È molto difficile trovare un evento sportivo globale, un momento iconico che ha segnato la storia dello sport, in cui è difficile trovare traccia della politica.

Olimpiadi, Mondiali, Campionati Europei, Campionati Nazionali, persino singole partite o derby cittadini.

Quando uno sport dimostra una capacità di aggregare folle, pensieri, opinioni, questo entra sempre in rotta di collisione con la politica, finendo per mescolarne persino il linguaggio (scendere in campo) o gli stessi nomi di partito (Forza Italia).

È successo. Succede. Succederà.

Pertanto è ipocrita non accettare che uno sportivo possa “fare politica”, perché è una naturale conseguenza delle cose.

Il Donald Trump che twitta contro Stephen Curry o arringa la folla contro i giocatori NFL che si inginocchiano durante l’inno americano è magari diverso nella forma, ma nella sostanza non è il primo leader politico che parla o si schiera contro uno sportivo o una lega sportiva, al fine di ridurre tutto ad una narrativa da “noi contro voi”.

Fleischer sottolinea anche come intruding sports into politics is a bad idea for politicians. Sarà una cattiva idea, ma ha tanti precedenti, che spesso funzionano.

Quante volte l’organizzazione di un evento sportivo è stata giustificata a fini politici? Quante volte, tramite lo sport, la politica ha cercato il consenso della gente?

Il rapporto tra politica e sport è probabilmente di “dipendenza di uno dall’altro” inferiore rispetto a quello tra sport e politica, ma la sua stretta connessione è egualmente importante.

Se quindi la politica è libera di servirsi dello sport per creare consenso, opinione, propaganda, perché lo sport non può esprimere le proprie idee politiche?

Lo Sport È Cultura, ricopre un ruolo fondamentale nella tradizione culturale e sociale della stragrande maggioranza delle nazioni che popolano la terra.
Trattarlo come un qualcosa di Serie B, come un taxi di cui servirsi a convenienza ma non pagarlo mai, rimandando il saldo di un ipotetico conto in eterno, è ipocrita.

Finché la politica si servirà dello sport, il diritto degli atleti di esprimere e manifestare le proprie idee e il proprio dissenso (anche in maniera colorita come un Colin Kaepernick o un LeBron James) è ancora più giustificato, sensato e dovuto.

Perché considerando la storia, dire “athletes should stick to sports” significa considerare gli sportivi alla stregua dei gladiatori romani: esseri inferiori il cui unico scopo, la cui unica finalità è l’intrattenimento del popolo.

Qualcosa che aveva poco senso migliaia di anni fa, figurarsi ora.

Un (av)Ventura di ottimismo smodato

“Per la Nazionale azzurra che verrà Carlo Tavecchio ha scelto non un nome ad effetto ma un maestro di pallone, che sa valorizzare i giovani. Una decisione in controtendenza se si considerano gli ultimi allenatori: Sacchi, Trapattoni, Lippi e lo stesso Conte.”

Prendo l’incipit del pezzo del Fatto Quotidiano per riassumere, in maniera sintetica, ciò che si dice di Giampiero Ventura, futuro CT della Nazionale Italiana, l’uomo cui saranno affidate le speranze di qualificazione a Russia 2018 ed evitare un’esclusione, la prima in 60 anni (da Svezia 1958), qualcosa che rappresenterebbe l’anno zero del calcio italiano (che già viene da due eliminazioni ai gironi in Sudafrica e Brasile).

Ventura, che nelle ultime 5 stagioni è stato l’allenatore del rilancio del Torino a livelli medio-alti, è considerabile come il classico “mister di provincia”: gavetta lunghissima (ha allenato ovunque, dall’Interregionale alla A), esoneri e subentri, palmares fatto esclusivamente da promozioni, ridottissima esperienza internazionale.

Non nascondo di essere assolutamente contrario alla scelta di Ventura come CT, nonostante questa sia stata agevolata da una concorrenza quantomeno flebile (Montella sarebbe stato, specie alla luce di questa stagione, ancor più inspiegabile). Ma voglio cercare di dimostrare la mia contrarietà in maniera oggettiva, qualcosa di raro nel paese dei “60 milioni di CT”. Non perché credo di essere competente (anzi), ma perché mi piace una dimensione in cui gli avvenimenti sportivi si analizzano in maniera asettica, lasciando le pomposità retoriche a ciò che è extra-cronaca.

Carlo Tavecchio, presidente FIGC, ha definito Ventura un Maestro di Calcio.

Nel calcio la definizione Maestro è utilizzata spesso per un futuro ‘collega’ di Ventura: il quasi coetaneo (è nato 10 mesi prima) Oscar Washington Tabarez, che il 29 marzo scorso è diventato il CT più longevo della storia del calcio mondiale.

Tabarez è chiamato Maestro anche (e soprattutto) per la sua precedente esperienza di insegnante di scuola, affiancata all’attività di allenatore nei primissimi anni della sua carriera.

In Ventura si possono riscontrare alcune affinità con l’ex allenatore di Cagliari, Milan e Boca Juniors: entrambi nascono come calciatori (Tabarez era un terzino, Ventura un centrocampista), entrambi abbandonano la carriera agonistica dopo risultati modesti e entrambi iniziano ad allenare nello stesso anno: il 1980.

Lì i percorsi differiscono: nel suo primo decennio da allenatore Tabarez può vantare addirittura una Copa Libertadores (Peñarol 1987, l’ultima conquistata da un club uruguayo), un’esperienza all’estero (Deportivo Cali) e l’aver allenato ad un Mondiale (Italia 1990); Ventura, invece, fa più fatica ad emergere.

Dopo 5 anni divisi fra i dilettanti liguri, la prima ‘occasione’ arriva prima con lo Spezia, sulla soglia dei 40 anni, dove dura 12 partite (con una sola vittoria), e poi con la Centese, dove disputa un biennio in C1 culminato con una retrocessione.

Il suo debutto in B avviene a 46 anni, quando viene chiamato da Maurizio Zamparini sulla panchina del Venezia. Come spesso accade con Mr Z, il primo anno di B del nostro non è intero, in quanto si alterna con Luigi Maifredi e Gabriele Geretto ad un anonimo 9° posto, arricchito dagli 11 gol di un giovanissimo Christian Vieri.

Venezia non è un’esperienza fortunata, ma è il trampolino di lancio.

Seguono, infatti, una doppia promozione, in due anni, dalla C1 alla A col Lecce e un’altra promozione in A col Cagliari, col quale disputa il suo primo campionato in massima serie a 50 anni, nel 1998-1999. I sardi finirono tredicesimi, e Ventura dovrà aspettare il 2010 per disputare un’altra stagione completa in serie A, con quel Bari ereditato da Antonio Conte di cui si è tanto discusso negli ultimi giorni.

In mezzo, tanti subentri (Udinese, Messina, Verona), tanta serie B (Sampdoria, Cagliari e Pisa), e la promozione in B mancata col Napoli nel primo anno della gestione De Laurentiis.

A Bari Ventura registra un onorevole 10° posto ed una amara retrocessione l’anno dopo, preludio al quinquennio granata in cui raggiungerà un 7° posto, il suo career best in A, valido per l’unica qualificazione alle Coppe Europee della sua carriera (porterà il Torino fino agli ottavi di finale, vincendo 8 partite sulle 14 giocate in Europa) grazie anche alla mancata licenza Uefa al Parma, preludio al fallimento ducale.

Le 14 partite di quell’Europa League 2014-15 rappresentano l’unica esperienza internazionale del nuovo CT azzurro, un campione poco identificativo.

Tavecchio ha definito Ventura come uno che ha insegnato a tanti allenatori le sue regole innovative (affermazione tirata nel mezzo, difficilmente verificabile nei fatti reali) e come uno che ha lanciato un sacco di giocatori da nazionale.

Andiamo a vedere chi sono i giocatori “lanciati” da Ventura.

Possiamo considerare come primo esempio, pur forzato, quello di Vieri, avuto ad intermittenza nell’anno di Venezia; anche se è decisamente una forzatura definire Ventura come l’allenatore che ha lanciato Vieri nel calcio italiano.

Considerando le due esperienze più felici di Cagliari e Lecce, l’unico giocatore avuto da Ventura che ha poi avuto un’esperienza in Nazionale è stato Bernardo Corradi. Che, nell’anno della promozione in A, vide il campo per ben due volte.

Nessuna traccia di giocatori da Nazionale A nemmeno nella rosa avuta da Ventura alla Samp, quando invece all’Udinese ebbe sì due futuri nazionali come De Sanctis e Iaquinta, che però debuttarono in azzurro anni dopo essere stati alle dipendenze del mister ligure.

Il primo giocatore ad aver debuttato in Nazionale entro 12 mesi dall’aver avuto Ventura come allenatore è Mauro Esposito, in una stagione dove però Ventura fu esonerato alla sedicesima giornata.

A Napoli Ventura allenò un giovane Ignazio Abate, che però debutterà in Nazionale sei anni dopo.

Nulla da segnalare a Verona, mentre a Pisa nasce la liason con Alessio Cerci, che Ventura ha indicato come uno dei suoi 11 “potenziali azzurri” in un’intervista fatta a marzo con Sky. Cerci debutterà si in Nazionale grazie a Ventura, ma a 26 anni.

Passando al Bari, sappiamo tutto della coppia Bonucci-Ranocchia: entrambi esordirono in nazionale grazie alla bella stagione giocata in Puglia alle dipendenze di Ventura, prima di passare rispettivamente a Juventus e Inter.

Venendo poi al Torino, i nomi ci sono stati ripetuti spesso di recente: Ogbonna, Immobile, Darmian fino ai più recenti Baselli, Benassi e Zappacosta.

Escludendo Bonucci e Ranocchia, che sono stati allenati da Ventura per una sola stagione, sommando le presenze in Nazionale di Esposito, Cerci, Ogbonna, Immobile, Darmian, Baselli, Benassi e Zappacosta si arriva a 54 partite. Meno delle 57 disputate, ad oggi, dal solo Bonucci. Ben lontane dal rappresentare un “solido apporto storico alla Nazionale Italiana”.

Ciò che ho letto e sentito poco in giro è il fatto che Ventura, negli anni, abbia costruito le sue fortune di provincia nell’essere un allenatore di campo, dedito al lavoro quotidiano e costante nel costruire le squadre, plasmare uno stile di gioco (prevalentemente offensivo) e sviluppare la crescita dei giovani.

Qualcosa che, come abbiamo imparato dall’esperienza di Antonio Conte e dalle sue continue frizioni con gli altri allenatori di Serie A, è lontanissimo dal lavoro e dal modus operandi di un allenatore della Nazionale.

Non ho dubbi nel dire che Ventura, nelle sessioni di lavoro che svolgerà a Coverciano nei prossimi due anni, farà un ottimo lavoro e sarà in grado di dare un imprinting ai giocatori da lui selezionati.

Ho molti dubbi nelle capacità di Ventura come “lavoratore a distanza” e come selezionatore nel preparare partite particolari -considerando il girone di qualificazione che ci aspetta queste “partite” saranno numerosissime- dove non si può sbagliare.

La scelta di un CT come Ventura ha pochissimo senso nel biennio mondiale, dove non puoi permetterti di creare un progetto da zero, ancor di più quando hai un girone che quasi sicuramente ti costringerà a giocarti la qualificazione ad un playoff andata/ritorno.

Avrebbe avuto molto più senso puntare su una tipologia di allenatore stile Ventura due anni fa: qualificarsi ad un Europeo a 24 squadre è molto più facile ed in ogni caso andremo in Francia consapevoli che un quarto di finale raggiunto sarebbe un risultato onorevole.

L’Italia ha perso due anni con Conte che nel breve periodo ha lavorato molto bene, ma ha costruito zero sul medio/lungo e che porterà una sua squadra in Francia, di pretoriani e di scelte fatte per convinzioni tecnico/tattiche.

Ventura sarà un CT che costerà poco, molto meno di quanto sarebbe costato un selezionatore più blasonato (perché non si considera mai l’idea di un allenatore straniero?) e più di sicuro rendimento e che in ogni caso difficilmente sarà l’allenatore della Nazionale dopo il 2018 (quando arriveremo al decimo CT in 21 anni), vuoi per età (avrà 70 anni e le motivazioni saranno tutte da verificare) e vuoi per risultati che potrebbero non essere raggiunti (motivo per cui questa scelta potrebbe anche essere un ‘alibi’ perfetto).

Una scelta coraggiosa, anche alla luce del fatto che Tavecchio potrebbe non festeggiare il prossimo Natale da presidente FIGC, sarebbe stata quella di un allenatore poco sexy (abbiamo spesso assistito, nell’ultima stagione, a ripetuti peana celebrativi, quasi anticipati, sul #TorinodegliItalianidiVentura), magari straniero, con il quale promuovere un progetto di 6 anni che possa vederci realmente competitivi a Qatar 2022, accettando il rischio di non qualificarsi in Russia.

Invece si temporeggia, si fa una scelta di retoricadi manifesto (se Ranieri non avesse stupito il mondo col Leicester, Ventura sarebbe stata una buona idea per i media?) dimostrando come al calcio italiano non importa nulla il pensare sul medio/lungo periodo.

Tanto, poi, si può sempre ricorrere al #TroppiStranieri come giustificazione e panacea di tutti i mali.

What does it mean dreaming to become a Sport Journalist in 2016?

Academic Essay written as Final Assignment for the Sports Journalism Module, University of Westminster.

It is often said that Journalism is a vocation.

Considering Sports Media as a prominent form of popular culture (Hutchins & Rowe, 2012), understandable if we think of Sports itself as one of the greatest passions of the twentieth century (Boyle & Haynes, 2009), it can be argued that Sports Journalism is a vocation as well.

The dream of being a Sports Journalist has always accompanied me through my adolescence, and still is the fuel that feeds my engine.

But what does it mean dreaming to become a Sports Journalist in 2016?

Attending the Sports Journalism Module helped me to broaden my expertise and my ability to write on different sports and produce various types of reports and writings. The Course has been helpful in terms of working under pressure, simulating a real newsroom: something that not much Sports-Journalists-hopeful have the chance to experience.

Learning a career is a process made of practice.

Practice is essential, vital and fundamental. Especially if being on the path to be a Sports Journalist. And during the 12 weekly appointment every Wednesday night in Marylebone Road, I have had the chance to do exactly that.

But is practice (and practice and practice) the best way to drive yourself into the world of Sports Journalism?

It could be argued that the Media Revolution has changed the ‘games rules’.

Bull (2008) wonders if in a world of 24-hour Sports Coverage we have lost all judgement of what is actually worth reporting, and he definitely may be right: does the Social Media ‘boom’ change Journalism’s Gatekeeping process and its dogma?

Are we able today to cover Sports in the best possible way, without being affected by personal judgements or feelings? How does Social Media help us in order to pursue this goal?

And given all this assumption, what does it mean, for a young adult, dreaming to become a Sports Journalist today?

Someone dreaming that job should be prepared to face several dynamic and continuous changes while being inside a fast-paced world.

I will now consider a recent example on what is Sports Journalism to me.

Weeks ago, Juventus was preparing to face Bayern Munich in the 2nd leg of UEFA Champions League Round of 16.

A few hours before the match, Bayern’s Twitter account posted this goliardic image, joking about Juve’s motto #finoallafine (literally, ‘till the end) and transforming it into “Qui è la fine” (This is the end).

It seemed like an average pun, often portrayed between Sports Teams on Social Networks nowadays.

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Instead of simple fun and joking, the rail tracks in the Photoshop image were confused with the ones leading to Auschwitz Nazi Lager.

Although it took only a few minutes for a Twitter user to find out the real origin of those rail tracks, several Italian journalists embraced the controversy by tweeting or writing about the scandalous Bayern’s tweet.

It was easy to understand how Bayern’s Tweet was a simple excuse, for many, to express their anger against the opponent, in a game that was crucial for Italian Football.

Juventus eventually lost the match in Extra Time, leaving Italy without any teams in European Competitions Quarterfinals for the first time since 2001, marking another low chapter in Italy’s Football recent history.

What this story taught me is the fine line between covering and cheering.

Something that is not remembered as it should be while today’s journalists cover Sports Events or News.

Would this huge number of Italian Journalists complained about Bayern’s pun if it was not aimed to an Italian team? If it was directed, for example, to an English or French one?

I don’t think so.

The advent of Social Networks like Twitter have opened new and direct forms of communications between Sports Club, Fans and Journalists (Price, Farrington, & Hall, 2013), and those changes have had a significant impact on the accessibility of any potential news and facts.

In my opinion, those changes could have a negative side.

Sports Journalists, today, are often too sensitive and subjected to be influenced by their personal opinions and passions about (or against) particular teams.

This kind of behaviour is not only damaging the reputation of those journalists, but also the image of journalism itself.

Where opinions overshadow facts there is no Journalism, there are no facts.

Studying Sports Journalism in the ‘old fashioned way’ could be a remedy to this drift.

Learning the basics and develop a standard and aseptic style should avoid a derailment in journalistic principles.

With this in mind, the focus can move to analysing what could be the best possible use of these new technologies and platforms.

Thanks to Twitter, Facebook and Blogs, anyone could launch a story, anyone could spark a rumour; fact checking is often overlooked in order not to lose time.

Sometimes the use of those platforms by athletes themselves bypasses the Gatekeeping function of journalists, publicists and even sports officials. (Hutchins B. , 2011)

There are also new examples, like The Players’ Tribune (a website launched by MLB star Derek Jeter that is managed and written entirely by athletes), where the true protagonists of the Sports competitions can become also the next Reporters (McCue, 2014), posing themselves as competitor also in the Journalistic Field.

For example, The Players’ Tribune became an Internet sensation when NBA star Kobe Bryant decided to announce his retirement from basketball in a letter published on the website, or when another NBA star in Kevin Durant worked as a photographer, for the same site, at Superbowl 50 earlier this year.

PlayersTribune

Despite the fact that these examples surely give those platforms an extra-kick and a particular appeal compared to traditional Journalism Portals.

So, from the ‘traditional side’, the value added can be found into the deep analysis and the extended research.

The Grantland Example, referring to the website once founded by HBO’s Bill Simmons, has generated a large longform base, with several bloggers and young journalists dedicated to write these long, detailed and slow-paced pieces that, even in an Era of a short attention span, are drawing more and more audience.

But longform can’t be the solution to all the problems.

Emerging sports journalists, in order to succeed today, needs to embrace those changed by adapting in the best possible way, but without changing the nature of Gatekeeping and the true essence of what being a journalist really is.

So it may be argued that Sports Journalism is going all the way towards an era of Convergent Sports Journalism, defined by Hutchins and Rowe (2012) as a mode that requires journalists to produce and reuse stories for several media platforms at the same time.

This could lead to a case where these several work demands led to a ‘creative cannibalisation’ of the content (Curran, 2011), where professional journalists and general media ‘stakeholders’ are producing heated arguments over the rightful ownership of these new forms of intellectual property (Hutchins and Rowe, 2012).

While attending the module, I have tried to rethink my passion for Sports Journalism and channel it into a critical analysis of its future and the profiles I currently follow with interest and curiosity.

Changing my style and adapting to a different atmosphere and environment has been the challenge of a lifetime.

As my lecturer often joked about, Italians often have a too-rhetoric and language-dense writing style.

For me, this is something totally distant from what is supposed to be any kind of Journalism in 2016.

People don’t read.

And when they do, they usually read for a short period of time with a passive attention span.

I still believe that good journalism will have an audience if it will be able to adapt to this changes and will be ‘on board’ with the new world.

Even if most people read less than in the past, they still rely on Journalists as people to tell them the truth and, especially, why what happened has happened.

In building my dream and learning a future career I have always tried to look up to the best examples in Sports Journalism.

I consider myself lucky when I think that I have had the luck to meet, interview, and sometimes get to know, my ‘inspiring models’.

I will start with the duo that represent, for my generation, the Basketball coverage in Italy.

Flavio Tranquillo and Federico Buffa for almost 20 years have been the principal voices of Basketball in Italian Television.

A faithful generation not only of fans, but also of aspiring journalists, have studied their work and learnt, almost by heart, their catchphrases and their style.

I think that an aspiring journalist can properly define someone as ‘Role Model’ if he had the chance to know him better and confront him on what does it mean to be a Sports Journalist.

Their work is considered remarkable also because they were able to do in the right way, without being conditioned by the negative stuff I have mentioned earlier in this piece.

In an interview I’ve recently done with Tranquillo, he states how a continuous interaction with Social Media Followers for a journalist is “important, but is not news, and it is not to be confused with an Editorial Line” (Interview, 2015).

I agree with him on this point, and we both concur that “Social Media are important and they’re one possible source. But they’re not the only one. And they should be subjected to Fact-Checking.” (Interview, 2015)

Mu Lin (2013) says, speaking about the previously mentioned Gatekeeping process, that “Web and mobile platforms demand us to adopt a platform-free mind-set for an all-inclusive production approach”, by creating the digital contents first, and then distributing them via appropriate platforms.

In conclusion, being a Sports Journalist in 2016 means being able to take on Mu Lin’s definition and make it work, in harmony, with the other examples previously mentioned, and always aim to the best.

Even if our audience is composed by 1, or 100, or 100,000 viewers, the Journalist’s job is to be always able to explain what happens (or happened, or will happen) to who’s reading or listening or watching. And to do it in the best possible way.

In an interview I made for this module with my friend Dario Vismara, an esteemed Basketball Journalist in Italy, he states (on the future of Sports Journalism) that “There’s a reason why Grantland has closed. Social Media created a ‘Numbers Hunting’, overshadowing the quality. Future is complicated, because people don’t read a lot, either about sport or on internet. We should then intercept audience with new content, by video or Podcast.

That is why, in my opinion, the truly successful Sports Journalists of 2016 (and 2026, and 2036) are and will be the most motivated one.

Because Sports Journalism is truly a Vocation.

Reference List

Bull, A. (2008, May 13). Bland, decrepit, unrelenting: the depressing state of our sports news culture. The Guardian.

Boyle, R., & Haynes, R. (2009). Power Play: Sport, the Media and Popular Culture. Edinbrugh: Edinbrugh University Press.

Curran, J. (2011). Media and Democracy. London: Routledge.

Hutchins, B. (2011). The acceleration of Media Sport Culture. Information, Communication & Society , 14 (2), 237-257.

Hutchins, B., & Rowe, D. (2012). Sports Beyond Television. London: Routledge.

Lin, M. (2013). A primer for journalism students: What is digital-first strategy? Accessed on March 23, 2016 from MulinBlog: A Digital Communication Blog: http://www.mulinblog.com/what-is-digital-first-media-a-primer-for-journalism-students/

McCue, M. (2014, October 9). Will The Future Of Sports Reporting Include Sports Reporters? From Fast Company: http://www.fastcompany.com/3036764/innovation-agents/will-the-future-of-sports-reporting-include-sports-reporters

Price, J., Farrington, N., & Hall, L. (2013). Changing the Game? The impact of Twitter on relationships between football clubs, supporters and sports media. Soccer&Society , 14 (4), 446-461.

How will we cover Sports in 2020?

Feature written as an assignment for the Sports Journalism module at University of Westminster. To reflect about the possible future of Sports Journalism, I’ve presented three ‘detailed’ cases of the category from my home nation, Italy, explained in first-hand by interviews I personally conducted between the 20th and the 22nd of February.

Since the Closing Ceremony of London 2012 Olympics, Sports Journalism’s landscape has changed out of all recognition, due mainly to the boom of Digital and Social Media.

How will it be by the time of the next Games, Tokyo 2020? We try to answer that question by looking at the path and possible future of three bright examples of Sports Journalism in Italy.

Globalising a Thematic Network

24 hours Live Channels have changed the way Sports is covered in Television, giving the audience a full understanding of everything is going on with their favourite player or team.

But there is still is a niche able to give audiences and subscribers an absolute 24-hours Access to their favourite Football Team: the Thematic Channels.

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Alessandro Villa interviewing former Inter manager Jose Mourinho | Photo via Facebook

Our subscribers know that, for €9 per month, they’ll get access to literally EVERYTHING that involves Inter, from training to special features or interviews: that is a kind of coverage that can’t be matched by bigger players like SKY Sport”. Alessandro Villa, one of Inter Channel Presenters, has no doubt when it comes down to identify the recipe of success.

Since 2000, Inter Channel has always represented an important part of F.C. Internazionale: the important role played by former President, Massimo Moratti, in creating the network is the best example of that thesis.

What could be a sustainable future for these kind of channels? “In these last years”, Villa observes, “We started to think differently, creating more original content and working closer to the team. We will soon launch two new channels in China and Indonesia to extend our audience.”

Going Global and creating new exclusive content for an entirely different audience seems to be a smart way to success, especially if you look at Inter’s background and at the fact that, at the end, we’re still talking about a niche platform.

“Even if we’re watched by relatively few people”, Villa says, “My goal is to make a product for a potential 10 million viewers, and it always will be. We might start to create more digital content exclusively for Social Media or APP, but we will still be a niche. Our subscribers deserve the best possible product.”

Finding different path to success is vital for a Football Club Network, to minimise the impact of disappointing seasons from the team: “Although our effort and our work is the same regardless of results”, Villa concludes, “what is changed by results is the mood, our personal one and especially our audience one.”

Creating a Genre

It may be argued that, in the Digital Media Era, Radio seems like an outdated platform. That couldn’t be more wrong: if we look around, people tend to enjoy more audio than video products.

Considering that, it seems weird that in Italy, the country where Radio was invented, there wasn’t a sport-only Radio Station until five years ago.

Radio Sportiva
Radio Sportiva’s logo and slogan | Photo via Facebook

Radio Sportiva was a fresh idea five years ago”, says Dario Ronzulli, one of the Radio’s Presenters, “and it still is today, because at this stage we’re still the only Sport Radio in Italy.”

Mr Ronzulli has no doubt in identifying his Station’s main reason for success: “Whenever we’re covering a Live Event or simply commenting a performance on one of our Programs, we give the audience the chance to join the talk with WhatsApp messages: they both boost our listeners’ ego and provide us with more Talking Points.”

Radio Sportiva almost entirely airs from its studios in Prato, Tuscany, and sometimes does some Live Coverage of Football or Basketball matches but, as Ronzulli reflects, has no intention to join the radiophonic rights market for any event: “It would deeply change our ‘perfect’ mix between ‘Breaking’ News and Coverage and Programming, it is not worth it to do that and changing our core structure.”

Sport’s Consumption is going towards an on-demand mood, like it is for TV Series or Movies: how can Radio Sportiva join this change? “The easiest answer”, Ronzulli concludes, “Should be ‘creating Podcast and On-demand contents’: I consider them vital for all Radio’s future, and I hope we will pursue that road in the near future.”

Does Size Matter?

From the previous two example, it may be argued that one of the recipes for success is also the ability, for the sport talk, to be short, concise and concrete. But in the US, a different style has emerged in the recent years, the Longform.

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L’Ultimo Uomo’s cover for the acclaimed longform on José Mourinho | Photo via L’Ultimo Uomo

In 2013 a group of emerging online journalists founded L’Ultimo Uomo, an Online Magazine devoted to cover Sport in a different way from the mainstream one. “It was essentially started”, says Dario Vismara, Magazine’s Editor-In-Chief for Basketball, “bringing to Italy the ‘Grantland Example’: in an era where Sports Journalism goes towards shorter pieces, we try to bring to the audience the ‘longform’, and seeing if Italian audience is fascinated by that genre as we are.”

Even if Vismara joined L’Ultimo Uomo a year and a half after its foundation, you can see in his eyes the pride of being part of this great example of “New Journalism”.

The magazine started with a ‘grass-roots’ mentality”, Vismara continues, “in a pretty simple way: one piece for day, the text at the centre of the screen and nothing else. Our mission is to be, in every feature or profile, interesting, ironic, depth.”

L’Ultimo Uomo’s secret might be found, in addition to its narrative style, on the ‘average guys’ mood: only a few of its bloggers are professional journalists, but all contributors writes just to help people to understand what they see exactly how they do: they rarely attend Live Sport Events.

But how can an Online Longform Magazine survive in the Social Network Era? “Social Network are an opportunity, because a ‘casual’ reader will find us using them”, he says, “Our deep archive allows us to ‘relaunch’ an article if, for example, Ronaldo scores a hat-trick or LeBron James recorded a triple-double. That’s how you get a ‘casual’ reader.”

For L’Ultimo Uomo’s board and writers, the motivation essentially came from the ‘expert reader’: “He’s usually in our niche, and he represent a huge motivation for me”, Vismara says, “I have to be, on a general point of view, more informed and more prepared than him on that topic. That’s how you gain trust and ‘fellowship’

But Vismara is quite pessimistic about the future: “There’s a reason why Grantland has closed. Social Media created a ‘Numbers Hunting’, overshadowing the quality. Future is complicated, because people don’t read a lot in Italy, either about sport or on internet. We should then intercept this audience with new content, by video or Podcast.”

Palliativo Britannico?

Nonostante i risultati altalenanti a livello europeo (solo tre Champions League vinte dal 2000 ad oggi, con il 3° posto nel Ranking UEFA a rischio per i prossimi anni), la Premier League continua ad essere il campionato di calcio per club più ricco e attraente del mondo.

Il fascino del campionato inglese è decisamente elevato presso i media mondiali, e il nuovo contratto televisivo da oltre £5 miliardi di sterline (più di sei volte superiore a quello che è l’accordo TV per la Serie A italiana) che entrerà in vigore nella prossima stagione ha portato denaro fresco e abbondante nelle casse dei 20 club della massima serie.

Parallelamente, ha riacceso il dibattito attorno all’impressionante ed inarrestabile aumento dei prezzi dei biglietti allo stadio, che hanno creato un profondo cambiamento sociale nella composizione del tifo britannico.

Negli ultimi mesi, l’eco delle proteste di tifoserie come quella del Liverpool han fatto discutere sull’effettivo potere dei Fan nel contrastare questo fenomeno.

È in questo contesto che si inserisce l’accordo raggiunto stamattina tra i 20 club di Premier League che porterà, nelle prossime tre stagioni (quelle dell’accordo monstre), ad un tetto di massimo £30 per i cosiddetti Away Tickets, i biglietti per le partite in trasferta.

La misura è una risposta d’impatto alla campagna Twenty is Plenty, che promuoveva un tetto massimo inferiore, pari a £20 (poco più di €25). L’accordo unanime sulle £30 ha scongiurato una possibile spaccatura tra le società in caso di eventuale votazione, che si sarebbe svolta entro fine mese, sulle £20 volute dai tifosi.

Una domanda da porsi, a questo punto, dovrebbe essere la seguente: £30 è abbastanza?

Inizialmente sembreremmo propensi a dire di sì, specialmente guardando a questa tabella del Daily Mail, che mostra l’aumento degli Away Tickets delle 11 squadre di Premier League sempre presenti nella massima serie nelle ultime 20 stagioni.

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Fonte: Daily Mail

Come si può vedere dalla tabella, l’aumento del biglietto delle squadre considerate è andato ben oltre qualsiasi tasso di crescita fisiologico dovuto all’inflazione.

Il caso più eclatante è, senza nessuna sorpresa, quello dell’Arsenal, che ha visto un per certi versi necessario aumento dei prezzi a seguito dell’inaugurazione, dieci anni fa, del suo Emirates Stadium.

Osservando meglio la tabella però si arriva a intuire come il tetto di £20 avrebbe rispecchiato in alcuni dei casi il potenziale prezzo odierno seguendo il tasso d’inflazione: in contrasto, alcune delle squadre (Tottenham, Southampton, Chelsea) già 20 anni fa si avvicinavano a quel prezzo “limite” oggi richiesto dai fan: in questi casi parliamo di squadre che 20 anni fa (ma anche oggi) avevano impianti relativamente piccoli, attorno ai 40.000 posti a sedere, con necessità quindi di ricavi anche sui biglietti “esterni”.

L’accordo collettivo rimpiazza, almeno momentaneamente, il cosiddetto ASI (Away Supporters’ Initiative): una serie di contributi economici (dal valore minimo totale di £200.000 a squadra) previsti dai 20 club di Premier per gli Away Supporters dal 2013-14, data di partenza dell’attuale contratto televisivo (di valore inferiore del 71% rispetto al nuovo).

Le iniziative, in alcuni casi, prevedevano già tetti massimi ai prezzi (il caso dello Swansea e del’iniziativa “True for 22”), accordi di reciprocità (con protagonista in questo caso il Newcastle), trasporti gratis o agevolati (anche in aereo) per alcune delle partite della stagione o sconti fissi (tra i £4 e i £5) sul prezzo del biglietto in trasferta applicato dalla squadra ospitante (è il caso di club più blasonati come Arsenal, Liverpool e Manchester United).

È tuttora poco chiaro se le agevolazioni dell’ASI continueranno ad essere applicato, singolarmente o collettivamente, da parte dei club di Premier League (l’Arsenal ha già confermato lo sconto di £4, stabilendo quindi un tetto di £26 al prezzo di tutti gli Away Tickets).

È altrettanto dubbio quanto l’accordo possa rappresentare da apripista a una riduzione anche per quanto riguarda i prezzi dei biglietti casalinghi e degli abbonamenti stagionali.

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Fonte: Premier League

La Premier League, per evitare che tutto questo sia semplicemente considerato un palliativo, un semplice contentino per i tifosi, deve quindi far in modo che l’accordo di oggi sia un punto di partenza (e non di arrivo). In questa direzione il prossimo passo potrebbe essere l’istituzione di un Season Away Ticket, misura che testimonierebbe la crescita della collaborazione tra i 20 club di Premier.

In caso contrario, sarà dura non vedere l’accordo come un Image Cleaning da parte dei club di Premier League dopo le reazioni negative alle voci sulla futura Superlega Europea.

Gatte frettolose e Figli ciechi

Data la quasi assenza di reale competitività nel campionato di Serie A (dico quasi solo perché aspetto di vedere come Napoli e Juve reagiranno al cambio in vetta di sabato e al ritorno delle coppe europee), ogni anno i media che contano (per usare termini cari all’establishment sportivo) si lanciano in sperticate lodi per squadre simpatiche che attraversano ottimi momenti di forma o spietate critiche a squadre meno simpatiche per motivi anche extracalcistici.

Sia chiaro: è assolutamente logico evidenziare (e lodare) un Sassuolo che perde la prima partita in casa a gennaio o un Empoli che chiude il girone d’andata tra le prime 10 con più di 30 punti.

Il problema nasce quando questi giudizi esagerano, perdono la bussola e si trasformano in considerazioni generali. Usando un numero di partite positive (o negative) per evidenziare un trend generale è superficiale, frettoloso e sciocco. Specialmente se il tutto proviene da chi parla e vive calcio per mestiere e ha il compito di informare e “avvicinare” la gente.

Che un tifoso vada in overconfidence è normale e per certi versi ovvio.

Che ci vada un addetto ai lavori un po’ meno.

Ecco qualche statistica che, leggendo i soliti processi alle solite squadre, magari vi sarà sfuggita:

  • Sesta giornata: il Torino, con la vittoria sul Palermo, raggiunge il 3° posto in classifica. Si sprecano gli elogi per il Toro degli italiani, modello vincente contro chi fa squadre troppo straniere (anche lo stesso Palermo, ad esempio).
    13 punti in 6 giornate significano un bottino ben superiore ai due punti a partita. Nelle successive 19 partite i granata raccolgono 18 punti. Nell’arco di tempo considerato, solo Carpi (17), Sampdoria (15) e Verona (12). Torino che ha superato il totale di Samp e Carpi soltanto nell’ultimo turno, nel 3-1 rifilato al Palermo.
  • Il digiuno più lungo di vittorie? Se state pensando alle squadre più “disastrate”, vi sbagliate di grosso. L’Atalanta non vince da 10 partite (5 pareggi e 5 sconfitte), dal 3-0 contro il Palermo. Dai soliti noti, calma piatta.
  • Ma parliamo del Palermo, inviso agli occhi dei media che contano per la girandola di allenatori (dovuta più che altro ad altre questioni, ma certe cose i cacciatori di retweet che nella vita dovrebbero però cacciare gli scoop non le sanno). Squadra rosanero che, a differenza di altre (di cui parlerò dopo) sta avendo un andamento abbastanza regolare: a parte l’inizio della stagione (con 4 sconfitte consecutive dopo i 7 punti nelle prime 3), non sono mai passate più di quattro partite senza vedere i siciliani conquistare i tre punti. Nel periodo della baraonda societaria, il Palermo ha conquistato 8 punti in 7 partite: non un ruolino esaltante, ma comunque meglio delle seguenti squadre: Inter, Sassuolo, Atalanta, Sampdoria, Empoli, Frosinone, Verona. Scommetto che almeno 3 di questi nomi vi avranno stupito.
  • L’Empoli dei miracoli di Giampaolo (cit.), proprio dopo le lodi sperticate dei soliti noti, ha conquistato 4 punti nel girone di ritorno finora, frutto di 4 pareggi: solo Sassuolo, Udinese e Sampdoria finora han fatto peggio.
  • Il Genoa ha 9 punti nelle ultime 12 partite. Ma su e per Gasperini leggerete soltanto lodi sperticate per l’aver fatto i nomi degli Ultras contro di lui dopo una partita vinta 4-0 (ovviamente contro il Palermo).
  • L’Udinese detiene il secondo digiuno più lungo di vittorie, con 7 partite senza tre punti (spicca, manco a dirlo, il 4-1 rimediato a Palermo). Ma hanno inaugurato lo stadio nuovo, quindi va tutto bene.
  • Passiamo alla squadra preferita della retorica #primagliitaliani: il Sassuolo, la prima squadra in Serie A per proventi da Main Sponsor (che è, tra le altre cose, l’azienda del proprietario). Il disclaimer l’ho sottolineato, perché è un dato che spesso è assente nella retorica che si spende sulla squadra emiliana (vedere, per credere, l’immagine di testa di questo post). Ricordate la grande vittoria schiacciante (al 95° su rigore) dell’orgoglioso Sassuolo sulla deludente Inter? Benissimo, nonostante un mercato invernale interlocutorio (a meno che non si consideri come determinante la cessione di Floccari), i neroverdi non han più vinto una sola partita da allora, perdendo ben tre partite in casa su quattro giocate (l’unica, per confermare il vero leit motiv del post, contro il Palermo). Eppure nessuno parla di crisi Sassuolo.
  • Chiudiamo in bellezza, con la Sampdoria. Era il 10 novembre 2015 quando il sempre lucido Massimo Ferrero esonerò Walter Zenga per sostituirlo con Vincenzo Montella, presentato così.
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    L’aspetto più bello del tweet forse sta nell’annuncio ritardato di un giorno, per rispetto delle vittime degli attacchi terroristici di Parigi.
    Zenga lasciò la Samp avendole dato 16 punti in 12 giornate: troppo pochi, per le ambizioni di Ferrero. Quella Samp si trovava al 10° posto, a 6 punti dal 5° posto “europeo” del Sassuolo. Ad oggi la stella più bella ha collezionato, sulla panchina doriana, 9 punti in 13 partite, vincendo solo contro il Palermo (because of course) e il derby contro il Genoa (e anche qui ci starebbe l’ovviamente).
    Eppure le uniche critiche si leggono sui social da parte dei tifosi: dite che serve avere una stampa positiva attorno?

Al di là dell’eterno ritorno del Palermo in quasi ogni statistica, è doveroso sottolineare che alla stesura di questo post hanno contribuito soltanto la mia memoria e Wikipedia.

Nessuna conoscenza da insider, niente di particolare.

È logico che lodare/criticare Juventus/Napoli/Fiorentina/Roma/Inter/Milan, in rigoroso ordine di classifica, è più redditizio in termini di buzz generato, copie vendute e attenzione attirata.

Non c’é nulla di male ad essere esperti o a seguire solo 6 squadre su 20. Anche se il seguirle porta a certe robe tipo questa:

 

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Notevole, alla luce del post, anche quel “i granata non infieriscono”

Il problema si pone quando ci si vuole professare esperti, senza conoscere, anche delle altre 14. Anche qui, di base non ci sarebbe nulla di male: siamo pur sempre il paese dei 60 milioni di CT, professori di economia e finanza, parlamentari, giuristi e chi più ne ha più ne metta.

Ma se sei un addetto ai lavori dei media che contano, cerca almeno di non essere smerdabile con 10 minuti su Wikipedia.

Che bella l’NBA

Che bella l’NBA.

Che bella l’NBA, dove grandi campioni si affrontano lealmente e nel massimo rispetto.

Che bella l’NBA, dove il razzismo è talmente combattuto al punto in cui uno dei proprietari più ricchi viene bandito a vita per aver definito un ex giocatore “negro di merda” in una telefonata con l’amante.

Che bella l’NBA, dove non importa il fatto che di quella telefonata siamo venuti a sapere solo grazie a uno scoop, e poco importa che sia un fatto privato.

Che bella l’NBA, dove i più accesi contestatori di quel proprietario sono stati i suoi stessi giocatori, lo staff tecnico, i tifosi.

Che bella l’NBA, dove un giocatore fa coming out da free agent (senza squadra) e viene firmato senza problemi qualche settimana dopo.

Che bella l’NBA, dove giocano 100 giocatori stranieri e nessuno reclama “più spazio per gli americani, #TroppiStranieri!”

Che bella l’NBA, dove la globalizzazione si estende anche agli staff tecnici, che vanno lentamente popolandosi di allenatori stranieri.

Che bella l’NBA, dove ci sono donne che arbitrano e allenano: e tutto ciò viene visto come assolutamente normale. Donne che sono trattate in maniera eguale, elogiate quando la loro conoscenza rappresenta un valore aggiunto e criticate quando lo meritano.

Che bella l’NBA, dove un giocatore che insulta un arbitro gay in campo non solo viene punito dalla lega, ma anche dalla sua stessa squadra (pur “forzata”).

Che bella l’NBA, così lodata da tutti in giro per il mondo, anche da quelli che sono i primi ad avere atteggiamenti beceri, ignoranti, razzisti, sessisti, omofobi, stupidi.

Che bella l’NBA, dove nessuno si sogna di dire all’arbitro gay insultato dal giocatore “lo fai per farlo punire” “sono cose di campo” “è un vergognoso accerchiamento mediatico contro la squadra”.

Che bella l’NBA, dove non esistono pene per la discriminazione territoriale proprio perché non è concepita.

Che bella l’NBA, dove le battaglie culturali e sociali sono abbracciate indistintamente e non in base al proprio opportunismo, che sia relativo al tifo o alla linea editoriale.

Che bella l’NBA, che è talmente grande da permettere a certuni di lavarsi la coscienza.

Che bella l’NBA, perché è facile fare elogiare gli altri e le loro regole ma, allo stesso tempo, dire “sono cose di campo” “opportunista” quando tocca a noi.

Flavio Tranquillo e la Passione per il Giornalismo Sportivo oggi

(Foto d’archivio da Notizie d’aSPORTo, Stagione 2012-13, Bocconi TV)

Ho già scritto in passato dell’importanza che il Basket ricopre nella mia vita, e di quanto sia il mio sogno quello di poterlo raccontare professionalmente.

Sin da quando ero piccolo ho sempre associato, come molti miei coetanei, il racconto del Basket alla figura di Flavio Tranquillo.

Soprannominato The Voice, la sua storia è nota a tutti gli appassionati italiani di quel magnifico Gioco che è la Pallacanestro.

Ho conosciuto di persona Flavio Tranquillo la prima volta nel 2012, intervistandolo per quello che considero il mio “primo figlio”: Notizie d’aSPORTo sull’allora B Students TV  (oggi Bocconi TV). Ho avuto la fortuna di intervistarlo qualche altra volta, anche per la mia Tesi di Laurea, rimanendo ogni volta stupito e ammirato per l’umiltà e la disponibilità totale, nonostante una agenda constantemente piena di impegni.

Per questo motivo ho deciso di dedicare a lui la seconda intervista, dopo Paolo Condò, sul tema della Passione per il Giornalismo Sportivo oggi.


 

In parole tue, chi è Flavio Tranquillo?

Un ragazzo fortunato

Quanto è importante la passione per il basket nel tuo lavoro?

Molto, ma non è un merito. Solo un accidente della storia.

Dove si trova più gratificazione tra l’essere inviato in giro per il mondo o l’intervistare “individualmente” un personaggio sportivo? Perché?

La gratificazione sta nel conoscere cose e persone nuove. Personalmente sono un tifoso relativo dell’intervista.

Queste emozioni superano o precedono il fare la telecronaca dal vivo di una partita?

La partita sta sopra tutto. La partita, non la telecronaca della stessa.

Quale partita sceglieresti come la più emozionante della tua carriera? Perché?

La prossima, perché la bellezza è essere sorpresi ogni volta.

Secondo te c’é un rapporto tra la passione per uno sport e la nostalgia per “ere” passate dello stesso?

Credo ci sia una nostalgia rispetto a come si era quando si era più vergini.

Spesso però questa è una trappola da evitare, posto che un po’ di nostalgia ci sta sempre bene quando usata cum grano salis.

Quale è il tuo rapporto con la nostalgia?

Vedi sopra, mi piace molto ma provo a non crogiolarmi.

Si parla molto, specialmente negli ultimi tempi, del basket come business, specie quando si fa riferimento al “Modello NBA”.

In che misura può esserci ancora spazio per del “romanticismo”?

Non sono termini che si escludono, anzi.

Il business dipende dal giocare bene a basket, e per farlo il romanticismo, con o senza virgolette, è un ingrediente necessario, anche se non sufficiente.

Pensi che i temi “economici” allontanino le persone dallo stadio o comunque dal seguire la propria squadra?

Assolutamente no.

Quello che allontana è l’assenza di vero business, non certo il tema economico di per sé.

È possibile nel 2015 per te coniugare efficacemente passione e business in uno sport ai livelli più alti?

Assolutamente sì.

L’evoluzione dei media ha cambiato il tuo modo di scrivere ed intervistare? In che misura?

Chiaramente sì, ma non saprei entrare nel dettaglio.

È successo e basta.

Quale è l’importanza di un’interazione continua, via social network, con i propri lettori e con il proprio pubblico?

È importante, ma guai a confonderla con l’informazione o la linea editoriale.

Blog, gruppi o forum e pagine Social sono sempre più uno strumento di aggregazione e confronto.

Come ti rapporti con queste piattaforme? Possono essere uno stimolo?

Lo sono.

Sono una fonte di notizie e stimolo.

Una fonte, non “la” fonte.

E, come tutte le fonti, fondamentale è la verifica.

Puoi raccontare qualche aneddoto (vissuto in prima persona) in grado di simboleggiare il cambiamento del basket “mediatico”?

A metà partita controllo sempre Twitter, spesso correggo errori grazie ai follower.

Cosa consiglieresti ad un giovane che sogna il mondo del giornalismo sportivo?

Di avere un piano B.

Di non idealizzare.

E di stabilire cosa intende questo giovane per “giornalismo sportivo”.

(Ringrazio Flavio Tranquillo per la disponibilità).

Share The Love

A 23 anni non riesco più ad immaginare cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi “scoperto” il Basket.

Persone ben più qualificate di me han speso (e tuttora spendono) le migliori parole possibili per descrivere quel meraviglioso Gioco che è la Pallacanestro.

Il Basket è un Gioco, a mio modo di vedere, fortemente meritocratico. E, allo stesso tempo, difficilissimo da raccontare.

Avendo come sogno di vita quello di poterlo raccontare professionalmente, è naturale ispirarsi a coloro che segnano epoche del racconto sportivo.

Sono abbastanza sicuro di poter affermare che in Italia, appena dici “Basket” e “TV” (o “raccontare il Basket” o simili), i primi due nomi cui pensi sono quelli di, in rigoroso ordine alfabetico, Federico Buffa e Flavio Tranquillo.

O “BuffaTranquillo”, un’unica parola. Come le coppie che han fatto la storia dello sport, tipo “KobeShaq” o “JordanPippen” o “StocktonToMalone” e via discorrendo.

Il “Natale NBA” italiano quest’anno si arricchisce di “The Reunion”, 90 (tondi tondi) appassionanti minuti di conversazione tra le due voci principali della pallacanestro nostrana negli ultimi 20 anni.

The Reunion” scivola via lasciandoti quella sensazione di “I want more”, di voler continuare ad assistere a quella che è, sintetizzando al massimo, un incontro tra due vecchi amici che si raccontano la loro passione sottolineandone alcuni aneddoti.

The Reunion” è, per stessa ammissione di Tranquillo a inizio trasmissione, un qualcosa realizzato per il pubblico, per gli appassionati, per coloro che sono cresciuti con la voce narrante di “BuffaTranquillo”.

Durando 90 minuti precisi, “The Reunion” si può dividere in due tempi da 45 minuti, quasi come due atti di uno spettacolo teatrale.

Il primo atto è un viaggio all’interno del rapporto “BuffaTranquillo”, una cronistoria del loro avvicinamento al Gioco tra gli anni ’70 e ’80, con molti momenti “inediti” e poco noti. C’é anche spazio per quello che secondo me è uno dei momenti più interessanti del programma: una riflessione accorata e autocritica sul “metodo Buffa-Tranquillo”, la loro metodologia di raccontare le partite riempiendole di aneddoti che oggi trova tante riproposizioni (anche nel raccontare altri sport) ma che anche poco tempo fa non raccoglieva un elevato consenso.

Ricordo bene quando “rivali” comunicativi di BuffaTranquillo lamentavano l’eccessiva tecnicità del loro linguaggio e come questo potesse essere un ostacolo nell’accesso al Gioco. Nel mio caso, ma probabilmente anche in quello di persone che oggi raccontano il Basket meglio di me (e che ho la fortuna di conoscere personalmente), questo metodo ha rappresentato uno stimolo nell’accedere al Gioco: la curiosità di sapere, capire, quegli aneddoti e quelle storie, oltre alle dinamiche del mondo NBA. Un qualcosa che non è esclusivo della mia mentalità di vedere il Basket, ma che è parecchio condivisa e diffusa tra gli appassionati, come testimonia l’ottima intervista allo stesso Tranquillo di Dario Vismara sull’Ultimo Uomo.

Il percorso del “primo atto” si conclude idealmente a fine anni ’90, al momento in cui l’NBA torna sull’allora Tele+, che la affiancava alla copertura dell’NCAA. College Basketball di cui Buffa era seconda voce a quei tempi, periodo ricordato da video di repertorio che i nostalgici di quel periodo ameranno moltissimo.

Fine anni ’90 che segnano il passaggio dal primo al secondo atto: con il ricordo della prima telecronaca NBA del duo (Lakers-Suns del Novembre ’97) si passa alla parte più attesa dalla maggior parte dei Fan: una lunga retrospettiva (di circa 45 minuti) sull’NBA nel periodo BuffaTranquillo, dallo storico All Star Game ’97 di Cleveland con la premiazione dei 50 migliori giocatori di ogni epoca all’ultima telecronaca NBA del duo, la Gara 7 del 2013 tra Heat e Spurs.

Si parte dalle squadre che han segnato maggiormente queste 17 stagioni (gli ultimi Bulls di Jordan, i Lakers del Three-Peat, gli Spurs e gli Heat dei Big Three): 45 minuti ricchi di aneddoti e memorie, spesso inedite, sui protagonisti di questo lungo periodo della storia NBA, con ovviamente uno spazio dedicato a Kobe Bryant e al suo prossimo ritiro.

I 90 minuti di #TheReunion scivolano via leggermente, tanto da rendere interessanti anche i momenti definibili come “autocelebrativi” (non mancano le occasioni in cui Buffa e Tranquillo, che prima di tutto sono due amici, si complimentano -giustamente- a vicenda per la loro carriera ricca di soddisfazioni).

Una Reunion che potrebbe avere un seguito nei prossimi mesi e che rappresenta un “testamento spirituale” perfetto dell’amore per il Gioco da parte di due persone che han passato larga parte della loro vita a raccontarlo. Un programma, perfettamente costruito e montato dal team di SKY Sport, che nasce come un unicum e probabilmente è speciale (anche) per questo: quando le cose sono rare tendono ad assumere un valore maggiore.

Paolo Condò and the Passion for Sport Journalism in 2015

(Profile written as an Assignment for a University of Westminster course; ITALIAN VERSION BELOW)

Globalisation has had profound effects on the landscape of Journalism, changing literally everything, from news gathering to producing interviews. In these frenetic times it is worth to ask ourselves if the passion for this job is still intact or if has changed too, mainly due to Media Revolution.

“Passion for Football is a 33% of my job; another 33% is represented by the passion for writing and a final 33% reserved to the love for travelling. I would dedicate the 1% left to ego.”

Paolo Condò is one of the most respected and trusted football journalists of the Italian scene. After a career start in his hometown, Trieste, at Piccolo, Condò spent 31 years at La Gazzetta dello Sport and since last August he is one of Sky Sport’s talents. His international reputation is underlined by the fact that, at today, he is the only Italian journalist enlisted into ‘FIFA Ballon d’Or’ jury list.

“I started as a contributor at ‘Piccolo’ covering amateur football”, Condò said, “and due to my results I was hired. Two years later ‘Gazzetta’ phoned, because they noticed me, and I moved to Milano.” 

In his long-life career Condò has travelled around the world covering important stories or realizing distinguished interviews, and he thinks

“nothing compares to a far journey, with the ‘safeness’ of a famous newspaper with you, but the necessity of dealing alone, on the field, with everything. Life and careers are made by different phases: fortune is determined by doing the right thing at the right time. It has happened to me, and if today I am a reliable journalist is because the audience feels in my opinions the echo of my experiences.”

Experiences in covering Sports easily bring journalists the chance to witness incredible and unforgettable games:

“An indelible ‘patriotic’ memory was the Euro 2000 semi-final between Italy and Netherland, ended at penalties after an unbelievable match. On a historical point of view, I can say that ‘I was there’ for the stunning German win against Brazil in the 2014 World Cup.”

The passion for Sports can contrast with the nostalgia for bygone eras: often we lose passion towards a sport because of retired heroes or poor results from our favourite team, but this could apply also to Sports Covering:

“Nostalgia is part of life, but I try to deal with that on my personal own. For example”, Condò said, “think about admiring a view: after a while there will always be someone saying ‘nice, isn’t it? You should have seen that twenty years ago!’ I think that this represent an unconscious regret of our own youth, because maybe two decades ago the view was the same, but our eyes were better.” 

“Returning to football, I still consider Passion as the main engine that thrives through people, even if today’s football is the first global industry, a sector that provides jobs for millions of people. Everything begins from Passion, still today.”

Another indicator of the Passion about Sports is the confrontation between supporters and lovers, which today happens mainly inside the main Social Networks.
But how the Social Network affects the work of a Sports Journalist?

“I’m happy to be on Twitter and so far I have encountered few and negligible insults. I consider”, Condò said, “Social Network as inalienable for a journalist, because they’re a first source of information. Confrontation with your followers is vital, because it often happens that someone knows more than you on a specific topic.” 

“For example, you can be an expert of international football in general, but on the Socials you can meet someone who knows everything about Uzbekistan football, and on this topic you can only learn from him. Besides that, Twitter mirrors exactly your audience: it’s vital that the media, just like any other companies, knows their clients, even if it’s just to know what they’re interested into.”

“Media evolution has profoundly changed our MO. It’s important to maintain your moral principles, but the techniques have changed. It’s not casual that after 34 years in a newspaper I switched to television. An example of the change of the ‘mediatise’ football could be seen in my personal experience: I’m friend to several football managers and until few months ago I was always the one to call them on the phone. Since I work on television it has happened that they are the one to call me.”

A final question that surges is about the true ‘worthiness’ in pursuing a career in Journalism in an era where everyone can break a news, where is difficult to associate accuracy and “getting first”, where is hard to be paid worthily:

“Journalism’s world today is a difficult one. In my opinion, this work still makes sense if you approach it in a ‘old way’: travelling, reportage, months away from home pursuing a story or an interview.” 

“However, I am like a protected species in danger of extinction, it is really difficult to pay off a career like this. I wouldn’t recommend my sons a career in Sports Journalism, because today’s ‘new wave’ enters after infinite apprenticeship, in newspapers with reduced costs and salaries, with few travelling opportunities.” 

“But still, if one of my sons showed some talent and a remarkable passion I would indulge him into following a ‘freelance’ career: low cost travelling, investigating, discovering, writing or filming, selling on the international market rather than the Italian one, too small nowadays. It is a really difficult job, to which you have to be prepared (knowing different languages, having a broad knowledge, specializing deeply and being highly competitive). If someone would remove thirty-five years of my life and I would have to start over again, it’s definitely what I would do.”


– Chi è Paolo Condò?

Sono un giornalista sportivo di (quasi) 57 anni. Dopo 3 anni al Piccolo di Trieste e 31 alla Gazzetta dello Sport, da agosto lavoro come talent a Sky Sport. Sono un privilegiato: ho potuto fare della mia passione il lavoro della vita.

La genesi è stata relativamente semplice: cominciai a collaborare col Piccolo seguendo partite di calcio dilettantistiche, e siccome i risultati erano positivi nel giro di un anno – dopo aver coperto servizi sempre più impegnativi – venni assunto col fatidico articolo 18. Quasi due anni da giornalista praticante, l’esame di Stato superato, la telefonata della Gazzetta che mi aveva “notato”: da lì il trasferimento a Milano e tutto ciò che ne è conseguito.

– Quanto è importante la passione per il calcio nel suo lavoro?

Direi che la passione per il calcio valga il primo 33 per cento. Il secondo è la passione per la scrittura, il terzo per i viaggi. Avanza l’1 per cento che dedicherei all’ego.

– Dove si trova più gratificazione tra l’essere inviato in giro per il mondo o l’intervistare “individualmente” un personaggio sportivo? Perché?

Vite e carriere sono composte da diverse stagioni, la fortuna è poterle mettere in fila in modo coerente facendo le cose giuste al momento giusto. A me è successo, e se oggi sono un volto televisivo del quale la gente sembra fidarsi è perché avverte nelle mie opinioni l’eco di esperienze vissute. Parlando soltanto del puro piacere personale, nulla vale un bel viaggio in Paesi lontani, con la forza di un grande giornale alle spalle ma la necessità di cavarsela da solo sul campo.

– Quale partita sceglierebbe come la più emozionante della sua carriera? Perché?

Ci sono molti tipi di emozione. Se il senso della domanda riguarda il patriottismo, direi che la semifinale di Euro 2000 fra Olanda e Italia, nella quale prevalemmo ai rigori dopo uno svolgimento del match molto rocambolesco, sia un ricordo indelebile. Dal punto di vista storico, credo che dell’1-7 della semifinale mondiale fra Brasile e Germania si parlerà ancora fra cent’anni, e io c’ero. Ma su questo tema potremmo davvero far notte.

– Secondo lei c’é un rapporto tra la passione per uno sport e la nostalgia per “ere” passate dello stesso?

La nostalgia fa parte della vita, ma io cerco di coltivarla il più possibile nell’intimità, senza farla pesare a chi mi sta attorno (famiglia, colleghi). Qualsiasi panorama meraviglioso vi troviate ad ammirare, dopo un po’ verrà sempre uno a dirvi “bello, eh? Avresti dovuto vederlo vent’anni fa”: è un modo per difendere un senso di esclusiva, e in molti casi un inconsapevole rimpianto della propria giovinezza. Perché magari vent’anni fa il panorama era lo stesso, ma gli occhi che lo guardavano vedevano meglio.

– Si parla molto, specialmente negli ultimi tempi, del calcio come business. In che misura può esserci ancora spazio per del “romanticismo”?

Nessun bambino che inizia a giocare a calcio lo fa pensando ai soldi che potrebbe guadagnare. Questo significa che la passione è sempre il motore d’avviamento: è chiaro però che se un mondo in cui campano mille persone diventa la prima industria mondiale, dando da mangiare a milioni e milioni di addetti, le cose cambiano. E dal secondo ruggito del motore, altroché se sono cambiate. Ma dal secondo. Il primo, quello da cui tutto nasce, resta la passione.

– Pensa che i temi “economici” allontanino le persone dallo stadio o comunque dal seguire la propria squadra?

Direi di no. Anzi, vedo una certa tolleranza dei tifosi verso i propri club economicamente in difficoltà che un tempo non mi sarei aspettato.

– L’evoluzione dei media ha cambiato il suo modo di scrivere ed intervistare? In che misura?

Naturalmente sì, sarebbe sciocco il contrario. E’ giusto mantenere i propri principi morali, ma la tecnica cambia col passare del tempo. Tecnica e mezzo d’espressione: non è casuale il fatto che dopo 34 anni di carta stampata abbia deciso di passare alla televisione.

– Quale è l’importanza di un’interazione continua, via social network, con i propri lettori e con il proprio pubblico?

Sono su twitter con discreto divertimento, anche perché sin qui sono stato fortunato: gli insulti – che fanno parte dei possibili effetti collaterali – arrivano in misura davvero trascurabile.

Dal punto di vista giornalistico trovo i social irrinunciabili, le informazioni passano di lì come prima cosa. E il confronto con chi ti segue è prezioso, perché capita frequentemente chi ne sa più di te su uno specifico tema. Tu magari sei un ottimo esperto di calcio internazionale in generale: ma in rete c’è chi è assai più preparato sul calcio uzbeko, e da lui – sul tema del calcio uzbeko – hai soltanto da imparare.

Inoltre, Twitter rappresenta abbastanza fedelmente il pubblico al quale ti rivolgi, su un giornale o in tv o su internet: ed è giusto che anche i media, come le altre imprese, conoscano i propri clienti. Non necessariamente per dar loro ragione, ma per sapere cosa interessa loro e cosa no.

– Può raccontare qualche aneddoto (vissuto in prima persona) in grado di simboleggiare il cambiamento del calcio “mediatico”?

Sono amico di molti allenatori, ma fino a qualche mese fa li chiamavo sempre io. Da quando lavoro in tv, è capitato che siano loro a chiamare. Molto istruttivo.

– Cosa consiglierebbe ad un giovane che sogna il mondo del giornalismo sportivo?

Inutile nascondere che la situazione dell’editoria sia molto difficile, specie paragonandola con quella dei miei inizi. Secondo me questo lavoro ha un senso se riesci a declinarlo alla mia maniera: viaggi, reportage, mesi lontano da casa inseguendo una notizia o un’intervista.

Ma io sono un dinosauro in via d’estinzione, non ci sono più i soldi per finanziare carriere del genere, da nessuna parte. In linea generale quindi non consiglierei ai miei figli la professione di giornalista sportivo, perché i ragazzi che entrano adesso dopo lunghissime anticamere lo fanno in giornali dove i costi sono stati tagliati e le opportunità di viaggiare sono ridottissime. E fra topo di redazione e topo d’ufficio, il secondo ha orari molto migliori.

Se però uno dei miei figli mostrasse un talento e una passione davvero smisurati, allora lo asseconderei – anche economicamente, fin dove è possibile – e gli direi di fare il free-lance: viaggiare (ovviamente low cost), indagare, scoprire, scrivere o filmare, vendere sul mercato internazionale, perché quello italiano è troppo piccolo.

È un’impresa difficilissima, alla quale si deve arrivare armati fino ai denti (lingue straniere, cultura generale, specializzazioni profonde, competitività a mille): ma se mi togliessero 35 anni e dovessi ricominciare da zero, è quello che farei.